lunedì 18 febbraio 2013

IL MIO NOME


Sobbalza al vento

la mia anima sgomenta,

e acre è l’impeto

del mio tormento.

La tua pelle ha il sapore

del mare in tempesta

e allontana da me

l’angoscia del tempo.

 

Il tuo cuore è stupendo:

 dolce e intenso!

La tua magia

è la vita.

Il tuo dono

è la vita!

 

Le tue carezze

disegnano su di me

l’arcano mistero

della tua passione,

e  miele gusto dalle tue labbra.

 

Ti voglio con il corpo,

ti ho con l’anima.

Mi incatena il calore

del tuo amore

perché

desiderio è il mio nome!
 
IL MIO NOME


Sobbalza al vento

la mia anima sgomenta,

e acre è l’impeto

del mio tormento.

La tua pelle ha il sapore

del mare in tempesta

e allontana da me

l’angoscia del tempo.

 

Il tuo cuore è stupendo:

 dolce e intenso!

La tua magia

è la vita.

Il tuo dono

è la vita!

 

Le tue carezze

disegnano su di me

l’arcano mistero

della tua passione,

e  miele gusto dalle tue labbra.

 

Ti voglio con il corpo,

ti ho con l’anima.

Mi incatena il calore

del tuo amore

perché

desiderio è il mio nome!
IL MIO NOME


Sobbalza al vento

la mia anima sgomenta,

e acre è l’impeto

del mio tormento.

La tua pelle ha il sapore

del mare in tempesta

e allontana da me

l’angoscia del tempo.

 

Il tuo cuore è stupendo:

 dolce e intenso!

La tua magia

è la vita.

Il tuo dono

è la vita!

 

Le tue carezze

disegnano su di me

l’arcano mistero

della tua passione,

e  miele gusto dalle tue labbra.

 

Ti voglio con il corpo,

ti ho con l’anima.

Mi incatena il calore

del tuo amore

perché

desiderio è il mio nome!
IL MIO NOME


Sobbalza al vento

la mia anima sgomenta,

e acre è l’impeto

del mio tormento.

La tua pelle ha il sapore

del mare in tempesta

e allontana da me

l’angoscia del tempo.

 

Il tuo cuore è stupendo:

 dolce e intenso!

La tua magia

è la vita.

Il tuo dono

è la vita!

 

Le tue carezze

disegnano su di me

l’arcano mistero

della tua passione,

e  miele gusto dalle tue labbra.

 

Ti voglio con il corpo,

ti ho con l’anima.

Mi incatena il calore

del tuo amore

perché

desiderio è il mio nome!

lunedì 21 gennaio 2013


                           Auschwitz

                                                                                                              

 

                Tratto dalla raccolta:

              Disperso fra le pagine di un quaderno sgualcito

                                                          di Klem D’Avino

 

 
Dopo tante peripezie personali ero stato assunto come responsabile agli acquisti da una multinazionale con vari interessi commerciali in Repubblica Ceca e altre nazioni Est-europee. Il ruolo era appetito da tanti e già due volte in pochi mesi durante le riunioni del C.d.A. era stata messa ai voti la proposta di sostituirmi. Se l’affare che mi stava portando in Polonia non avesse dato gli esiti sperati, neppure i tanti progetti andati a buon fine nel corso di quegli ultimi mesi sarebbero bastati a conservarmi il posto.

Già dalla mattina il cielo era immerso in un pallido grigiore e rendeva il paesaggio dello stesso colore. La pioggia incominciò a cadere fitta e sottile, accompagnandomi con il suo monotono martellio per tutto il viaggio da Brno al confine ceco-polacco di Cesky Tesin. Data l’ora tarda decisi di fermarmi a dormire sul versante ceco e oltrepassare il confine solo il mattino dopo. Pernottai in un accogliente albergo, che mi ricordava le tranquille locande delle province austriache e gustai un buonissimo gulasch, cercando di rilassarmi per presenziare con tutta la mia efficienza psicofisica all’importante riunione di lavoro che si sarebbe tenuta il giorno dopo a Katowice.

Mi ero accordato con una fabbrica di cioccolato austriaca per produrre in esclusiva per la catena di negozi gestita dalla società per cui lavoravo un tipo di cioccolatino molto amato dai bambini. La mia idea era di farne dei piccoli zaini di stoffa pieni di quella prelibatezza e metterli sulle spalle a dei peluche che produceva una ditta di Katowice. Il prezzo doveva essere accessibile per far sì che i genitori di tutti i ceti sociali potessero regalare ai figli qualcosa di buono insieme con qualcosa di bello, ma dopo il primo iniziale successo del mio “Sweet plush” i polacchi avevano giocato a rialzo. Se non ci fossimo messi d’accordo, io non avrei potuto prolungare il contratto e loro sarebbero stati liberi di sfruttare il successo della prima ondata di peluche lanciando sul mercato un prodotto quasi simile.

Se fosse successo, dato che gli imprenditori di Katowice erano stati indicati da me, i miei denigratori additando alla mia incapacità nello scegliere i collaboratori, avrebbero decretato facendo il possibile per togliermi il mandato.

Con quello stato d’animo preoccupato superai la dogana e m’immisi sulla statale 933 che mi avrebbe portato al bivio con Cracovia e da lì sarei arrivato a Katowice, la capitale del Voivodato di Slesia. Il tempo tendeva a peggiorare. Nonostante si fosse in primavera, faceva freddo e l’umida foschia che saliva dai boschi rendeva tutto il paesaggio cupo. Sobbalzai di colpo a causa di un oggetto che avevo urtato sulla carreggiata e solo grazie alla moderata velocità non finii fuori strada. Per evitare che le auto provenienti alle mie spalle mi tamponassero, parcheggiai sul bordo della carreggiata tra scossoni tremendi dell’avantreno.

Un tronco arrivato chissà come al centro della carreggiata si era ficcato sotto l’auto, distruggendo una ruota e alcuni componenti meccanici. Poiché spostarla senza un carro attrezzi era impensabile, mi avvicinai al bordo della strada e cercai di attirare l’attenzione di qualche automobilista. Ero fradicio per la pioggia quando si fermò un piccolo furgone. Non conoscendo io il polacco né lui l’inglese, l’uomo riuscì a spiegarmi a gesti che oltre il campo alla nostra destra c’era un piccolo borgo dove c’era un’officina meccanica. Se avessi seguito la strada, avrei impiegato molto di più che non attraversando la campagna. Lo ringraziai e mi affrettai a raggiungere il meccanico per far togliere la mia auto dalla strada e farmi chiamare un taxi.

Dall’alto della strada sembrava che il borgo fosse vicino, invece a causa del suolo accidentato e scosceso, dopo un’ora di marcia forzata non ero neppure a metà strada e dovevo percorrere ancora un boschetto di betulle per raggiungere le case che si notavano attraverso la foschia. Nel fitto del bosco la già scarsa luce svanì del tutto. La pioggia cadeva sempre più fitta e i brividi di freddo mi facevano perdere quel poco di lucidità che mi restava. Un’altra ora in quella selva fradicia e avrei rischiato di svenire a causa dell’ipotermia. Mi resi conto di aver perduto l’orientamento e per non correre il rischio di camminare in cerchio avevo bisogno di capire dove fosse quel borgo prima di continuare il cammino. Posai la giacca su una roccia e mi avvicinai a un albero dritto come un minareto, cosciente che con le scarpe e i vestiti eleganti sarebbe stato quasi impossibile arrampicarmi su di esso. Non posso dire di aver sentito qualcuno o qualcosa avvicinarsi. Non si vedeva niente, non si sentiva nulla, ma percepivo una presenza che mi osservava.

Dopo qualche istante in cui parve che il mio cuore smettesse di battere, un bambino di dieci o dodici anni, vestito miseramente e con le guance scarne, come chi fosse denutrito da mesi, si avvicinò timorosamente balbettando parole senza senso. Essere coraggioso non basta per non avere paura dell’ignoto e quel bambino mi diede l’impressione di provenire dall’oltretomba. Si fermò a pochi metri da me e mi fissò sempre emettendo degli strani suoni che non riuscivo a comprendere. Il suo viso smunto, i suoi gracili arti e l’aspetto miserabile, ebbero l’effetto di farmi dimenticare il panico di poco prima, facendomi provare una morsa di pietà verso quel povero cucciolo di uomo.

Con la sua flebile vocina ripeteva come una nenia la parola “ponizej” e intanto mi faceva segno verso la roccia, dove avevo poggiato la giacca. Scossi più volte la testa dicendo in varie lingue che non lo capivo. Allungai la mano per cercare di carezzare quel viso cereo, ma lui si ritrasse e mi guardò in un modo così triste che dai miei occhi incominciarono a fuoriuscire copiose lacrime. Si voltò e svanì nel buio del bosco.

Mi ci volle un quarto d’ora per riprendermi da quello strano incontro. Anche attraverso la camicia sentivo la pelle delle mie braccia accapponarsi. Scrollando con forza la testa mi destai da quel malinconico torpore e mi alzai con l’intento di arrampicarmi sul primo albero, ma non ce ne fu bisogno poiché una luce si accese oltre gli alberi ed io potei seguirla con facilità. Era l’insegna di una locanda, dove entrai e chiesi un bicchiere di vodka per riscaldarmi. Il locandiere parlava un buon inglese e riuscii a spiegargli che cercavo un meccanico che mi riparasse l’auto o perlomeno la togliesse dalla carreggiata.

L’uomo fece una lunga telefonata e mi disse che il tempo di riscaldarmi e sarebbe giunto il carro attrezzi. Sedetti distrutto su una sedia posta vicino a una grossa stufa a legna e cercai di asciugarmi per riprendere quanto prima il viaggio. Pensai che se avessi fatto a tempo sarei potuto andare in qualche negozio di Katowice per comprarmi degli abiti e presentarmi in modo decente all’appuntamento. Sulla parete di fronte a me c’era una mensola con alcune foto in bianco e nero. Erano fotografie che avevo già visto in vari documentari televisivi sui campi di concentramento nazisti. Mi venne in mente che quella era la zona dove c’era il più tristemente famoso lager della seconda guerra mondiale e chiesi al locandiere:

«Auschwitz è qui vicino?».

«Siamo ad Auschwitz! Il nome in polacco è appunto Oswiecim. Auschwitz non è la traduzione in tedesco. In quel periodo cambiarono anche i nomi alle nostre città».

«Purtroppo ci furono tante assurdità commesse durante quell’inutile guerra, ma le due che ritengo pazzesche furono proprio i campi di sterminio e i bombardamenti indiscriminati da ambo le parti sulle città, con la volontà di uccidere anche i civili, oltre ai soldati».

«Vero anche questo» annuì il vecchio. «Mi auguro che l’umanità non conosca un altro scempio come quello dei campi di concentramento, dove gli ebrei, gli zigani e gli omosessuali avevano il diritto di vivere qualche giorno e noi polacchi, qualsiasi religione avessimo professato, sopravvivevamo al massimo pochi mese».

«Se la presero anche con voi polacchi?» chiesi vergognandomi un po’ dell’ignoranza in materia. Le poche nozioni apprese a scuola erano finite da tempo nel dimenticatoio a causa del ritmo vorticoso della vita.

«Quello che nessuno mai precisa è che lo scopo di Hitler e della sua cricca di criminali non era solo di sterminare gli ebrei, ma anche di allargare i confini della Germania per dare più spazio vitale al popolo tedesco. Per fare ciò doveva svuotare i territori occupati dai precedenti abitanti. Ci fu una precisa volontà di cercare il più piccolo pretesto per annientare villaggi interi e deportare in massa gli abitanti delle città nei campi di lavoro, dove avrebbero lavorato fino alla morte. Mio padre, figlio di un professore di filosofia all’università di Cracovia, è stato tre anni nel campo di concentramento Auschwitz uno, quando era appena un ragazzo».

L’uomo, invogliato da me, continuò a raccontarmi di quei terribili anni. Il padre aveva visto morire in un vagone ferroviario in disuso, trasformato in camera a gas, la madre e il padre mentre teneva per mano il fratello Jozef di dodici anni. Chiunque si muoveva o parlasse dalla fila di parenti costretti ad assistere al macabro spettacolo era fucilato all’istante dagli Einsatzkommandos, soldati appartenenti a un gruppo speciale addetto ai prigionieri nei campi di sterminio per evitare che i soldati di leva, avendo orrore delle atrocità che commettevano i loro connazionali, potessero disertare o peggio ancora ammutinarsi contro i loro comandanti.

Per impedire che i figli corressero verso di lei e condividessero la sua sorte e quella del marito, la madre urlò ai due ragazzini di non muoversi, venendo colpita più volte dal militare vicino. Entrò nel carro bestiame sorretta dal marito, dicendo ai figli di farsi forza e attendere con fiducia che quella vergogna finisse in un modo o nell’altro.

Il piccolo Jozef non sopportò più di ascoltare le grida che provenivano dal carro bestiame e si liberò dalla stretta del fratello, scappando verso un bosco vicino. Due militari lo rincorsero e dopo qualche minuto si sentirono alcuni colpi di pistola. Ritornarono ridendo e fumando una sigaretta, si fermarono davanti al più alto ufficiale presente e dissero che il fuggitivo era stato abbattuto, venendo elogiati dallo SS-Gruppenfurer che si complimentò con loro, quasi avessero ottenuto una grande vittoria su un drappello di soldati nemici».

Mentre l’uomo mi raccontava questa triste storia, un vecchietto ossuto uscì da una porta laterale e ci ascoltò piangendo sommessamente.

«È mio padre» disse il locandiere. «Da quando i russi lo liberarono nel ’45, non si è mai ripreso completamente. Se ne va in giro con una vecchia foto del fratello, maledicendosi per non aver stretto più forte la sua mano. Si reputa colpevole per ciò che è accaduto e non avrà pace finché non troverà il corpo del fratellino per regalargli una sepoltura umana. È stato questo il motivo principale che l’ha spinto a stabilirsi qui. Dall’altro lato del bosco c’erano i capannoni, dove dormivano i prigionieri che adesso sono diventati patrimonio dell’umanità».

Il locandiere si avvicinò alla parete opposta e prese una vecchia cornice da farmi vedere.

«Ecco mio padre con mio zio Jozef nel 1941. Quelle bestie l’hanno ucciso e lasciato marcire senza sepoltura a soli dodici anni».

Sentii i brividi partire a razzo dalla nuca e arrivare alla schiena. La vecchia foto ritraeva due bambini di cui uno era lo sventurato che avevo incontrato nel bosco. Anche se il piccolo che avevo incontrato aveva lo sguardo perennemente fisso nel vuoto e il viso infossato a causa della denutrizione.

«Che cosa significa la parola ponizej?» chiesi tutto tremante, non riuscendo a distogliere lo sguardo dalla vecchia immagine. Qualcosa di arcaico e misterioso mi attraeva e mi spingeva in direzione del bosco.

«Sotto! Oppure si usa al posto della frase “Qua sotto”».

Raccontai commosso dell’incontro che avevo avuto qualche ora prima nel bosco di betulle e della misteriosa apparizione. Il vecchio si mise le mani in faccia e incominciò a piangere. Si rivolse a me in polacco, subito tradotto dal figlio anch’essi in lacrime.

«Per favore, Wloski[1], ci porti dove ha avuto l’apparizione».

Mi diressi verso il boschetto, seguito dal locandiere che sorreggeva il vecchio genitore. Non fu difficile raggiungere la piccola radura dove c’era la roccia poiché l’insegna della locanda per uno strano caso creava un raggio fra gli alberi che mi guidò fino a essa. Feci segno al locandiere che il bambino dell’apparizione m’indicava la roccia sopra la quale avevo appoggiato la giacca. L’uomo dopo avere fatto sedere il padre su un tronco, liberò la pietra dalle erbacce e dalle foglie. Scavò solo pochi centimetri quando spuntò dalla terra un oggetto bianco che, nonostante il buio, ci sembrò subito appartenere a un essere umano. Il piccolo scheletro era stato nascosto da quella pietra per più di cinquant’anni e solo il caso o chissà quale sovrumana volontà aveva fatto sì che io poggiassi la mia giacca proprio su quella sporgenza. Adesso Jozef avrebbe finalmente avuto una tomba in cui riposare e il fratello avrebbe trovato un po’ di pace avendo un luogo dove posare un fiore.

Dell’apparizione non ne ho mai voluto parlare a nessuno per il timore di essere preso per un visionario. Solo io so la spiacevole sensazione che ho continuato a provare le settimane successive. In ogni momento del giorno e della notte avevo davanti agli occhi lo sguardo triste di quel bambino, così intenso e magnetico da farmi provare nell’anima il dolore che aveva patito. Ci si poteva leggere tutto l’orrore che avrebbe potuto provare un bambino di dodici anni, costretto a vedere i suoi genitori andare incontro a una morte crudele, ma incapaci di reagire a tale sorte.

In una mia visione vidi – o immaginai di vedere - la madre di Jozef protetta dal marito nel vano tentativo di sottrarla alla furia delle guardie. La donna sembrava insensibile ai calci dei fucili che le percuotevano la schiena e urlava ai due figli di non correre ad abbracciarli per paura che quegli spietati aguzzini avessero condotto anche loro nel vagone.

Poi una notte, qualche giorno dopo che il locandiere mi aveva telefonato per raccontarmi del funerale postumo che avevano fatto ai resti del piccolo fratello del padre, sognai lo stesso bambino venirmi incontro. I vestiti erano quelli laceri con cui l’avevo visto la prima volta, ma una luce abbagliante negli occhi rendeva il suo viso bellissimo.

Alzò la mano e mi salutò con un sorriso, prima di svanire per sempre.

Avevo visto un angelo!



[1] Italiano.