mercoledì 23 giugno 2010

FRAMMENTI DI VITA (bozza di racconto)



FRAMMENTI DI VITA

Introduzione


La pace della notte è turbata dal sibilo affannoso del mio respiro. Guardo il vuoto che, immenso, riempie il mio spazio e per incanto dalle tenebre della mente ombre fuggenti si materializzano, riempiendo la stanza con macabri lamenti.
Frammenti di vita - persi nel buio del tempo - stanchi di dormire, bussano alla porta del rimpianto, e sul viso mi si legge il rimorso per aver sprecato un’esistenza intera dietro futili illusioni, smarrendo la strada che porta alla gioia, che porta all’amore.
Il ricordo degli splendidi anni della mia gioventù è svanito con il trascorrere del tempo. Ciò che mi resta sono solo gli incubi notturni con cui la mente si diverte a tormentarmi. Cosa ero non lo ricorda più nessuno, a volte neppure io. Non importa più a nessuno; neppure a me! Mi trascino stanco in questa mia nuova realtà, circondato da sguardi indifferenti di gente che non vede oltre ai propri occhi e non sa che a volte per emergere e lottare contro un’esistenza già scontata ed assegnata da chi crede di essere il padrone del destino degli uomini devi puntare tutto su un tavolo da gioco e rischiare di perdere tutto al primo tiro mancino della sfortuna.
Macabra ruota è la vita, che ti illude e poi ti abbatte, come se avesse solo giocato con te o ti avesse usato per chissà quale inconsapevole scopo. E intanto è già notte! Non mi resta che aspettare il solito nefasto carico di ricordi che si faccia strada nella mia disastrata mente.
Le pareti all’improvviso sembrano muoversi e tante immagini olografiche si susseguono l’una all’altra, irridendomi per la paura che provo per essi e per l’angoscia che mi causano. Volti mai dimenticati di gente che non c’è più, scorrono lenti, ad uno ad uno. Chi mi guarda torvo, chi compassionevole. E in ogni caso mi provocano brividi.
Rivivo azioni passate; errori passati.
Scriverò fiumi di parole sulle sensazioni che fanno grande l’uomo, che lo fanno credere invincibile. Sprecherò mari di inchiostro sui nefasti momenti della sua caduta, con lo stomaco che si aggroviglia dal dolore e dalla frustrazione, dalla rabbia e dall’angoscia.
Ma penso al presente – a questa notte – con la speranza per la mia mente malata che anche stavolta troverò in qualche anfratto della mia anima la forza di combattere il mio interiore nemico e non farmi annichilire da esso.
Ma è tutto inutile! Appena chiudo gli occhi le tante vicende che ho vissuto o che ho conosciuto mi tornano in mente e io rivedo il tutto come se fossi in una sala cinematografica, dove spesso l’interprete è il dolore e la trama sono le assurdità che succedono giorno per giorno a chi meno se lo aspetta.
Quando sento parlare di eutanasia e testamento biologico, non riesco a non pensare alla storia di un mio caro amico deceduto alcuni anni fa dopo una lunga e dolorosa malattia che lo stava portando alla pazzia. Rammento le parole che usò per raccontarmi la storia della sua vita ad una ad una. Come tanti martelli mi bussano alle tempie e mi fanno sentire inutile poiché io come gli altri lo abbiamo lasciato solo a combattere contro il suo destino.
Non conosco un rimedio che abbia la forza di impedirmi di soffrire per un tale nefasto ricordo, e se provo a scrivere ciò che mi narrò il mio amico è nella remota speranza che condividere la sua storia possa essere un lieve balsamo per la mia anima.

I
Il gruppetto di ragazzi era seduto all’angolo della piazzetta, su quello che una volta era un monumento commemorativo ai caduti di chissà quale guerra ed ora è soltanto un’anonima roccia ricoperta da graffiti, usata come panchina da giovani che non erano neppure nati quando i loro compaesani morivano in modo così eroico - e forse inutile – tanto da meritare un monumento nella piazza principale del paese. Neppure sapevano per quale assurdo motivo giovani della loro età avevano sprecato le loro vite e fossero diventati dei nomi sbiaditi su una pietra brutta e sformata, che solo un pazzo avrebbe potuto far passare per un’opera d’arte, dove risaltavano le date della nascita e quelle della morte.
Il paese aveva e ha un nome, ma non ha senso menzionarlo poiché è disperso nel grande anonimato dell’immenso numero di paesi di provincia che si conoscono più come espressioni geografiche che non per eventi salienti. Come anonimo era anche il gruppo di giovani, con nessuna particolarità che lo distinguesse da migliaia di altre congreghe giovanili. Era una delle tante comitive di ragazzi che lottava per emergere dal grigiore di un’esistenza bella solo per i pochi e tragica o anonima per tanti di essi.
«Non posso venire con voi, ragazzi! Se faccio ancora tardi mio padre mi ammazza di botte!»
«Non inventare scuse!» schernì il protagonista di questa mia storia uno dei ragazzi del gruppo che, nonostante non fosse né il più grosso, né avesse doti particolari, era considerato da tutti come un capo solo perché il padre era l’ex sindaco del paese e possedeva un ingente patrimonio fatto grazie agli introiti legali e illegali della sua clinica privata. «Dicci piuttosto che non vuoi venire perché te ne manca il coraggio!»
«Lo sai che non è vero, Sandro! C’eri anche tu quando mio padre mi ha riempito di botte per essere rientrato dopo mezzanotte. Non tutti i genitori sono tolleranti come i tuoi.»
«Fa’ come credi! Noi andiamo, e se ci ripensi sai dove trovarci.»
I sei ragazzi si allontanarono con i motorini e gli scooter, lasciandolo a piedi. Il padre non aveva mai voluto comprargli un qualsiasi mezzo di locuzione al di fuori della bicicletta - anche se fosse stato un rottame a due ruote - con la scusa una volta che non potevano permettersi quei lussi e un’altra volta per la sua sicurezza. Quell’ultima motivazione usciva fuori ogni qualvolta succedeva un incidente a qualcuno sul motorino, anche se il poveretto di turno fosse ultracentenario ed era morto di infarto e per caso si era trovato a transitare vicino ad un motorino parcheggiato.
Erano appena le venti, e Sandro aveva intuito che quella di suo padre era solo una scusa. Ma non era paura la sua! Non si sentiva un codardo, e l’unico motivo per cui si fosse tirato fuori da quella storia era perché non la considerava giusta. Due giorni prima erano stati ripresi dal proprietario di un bar e dai suoi collaboratori per gli schiamazzi che facevano nel locale. Sandro aveva fatto il galletto e tutti loro avevano preso tante di quei calci e pugni da bastare per dieci lezioni.
Ma Sandro non era il tipo da dimenticare facilmente un affronto del genere poiché era stato abituato sin da piccolo ad essere trattato con servile rispetto. Non aveva accettato di essere stato malmenato come aveva fatto il resto del gruppo con umiltà - dato che loro tutti erano coscienti di essersela andata a cercare - e, neppure quarantotto ore dopo, aveva già predisposto la sua vendetta: sarebbero andati sul retro del bar nel giorno di chiusura dello stesso e con un paio di molotov o una lattina di benzina lo avrebbero incendiato.
Gli altri ragazzi, soggiogati dal carisma di Sandro, erano stati entusiasti di quell’idea, anche se qualcuno di essi annuiva con il capo ma con gli occhi palesava un terrore indicibile. Purtroppo l’orgoglio e il desiderio di appartenere a un gruppo non consentiva loro di ammettere la propria paura, e gasati da un paio di spinelli e qualche birra, anche il più riottoso trovò il coraggio di acconsentire.
«Siete dei matti sconsiderati!» li redarguì il mio amico. «Considerate che appena due giorni fa ci hanno malmenato. Saremo i primi ad essere sospettati. Inutile che andiamo mascherati, tanto ci riconosceranno ugualmente.»
«Ti preoccupi troppo!» mi provocò platealmente Filippo, il figlio di un ufficiale dei carabinieri, che nella comitiva era l’alter ego in negativo di Sandro, deriso da tutti poiché era privo di spirito di iniziativa e non riusciva mai a formulare un pensiero complesso con la sua testa, preferendo rubare le idee degli altri per farle proprie. «La devono pagare per quello che ci hanno fatto, e poi sarà la loro parola contro la nostra. Non dimenticare che i nostri genitori sono persone che contano in questo paese e quel maledetto barista è un ex pregiudicato. Ci provasse soltanto ad accusarci e vedrai quanti problemi avrà!»
Convincerli a desistere era stato impossibile, e il risultato era che sei ragazzi di sedici e diciassette anni stavano andando incontro a guai così grossi che avrebbero rovinato le loro esistenze da lì alla morte. Se fosse successo davvero qualcosa di grave a quelli che erano i suoi unici amici, non sarebbe più riuscito a guardarsi nello specchio, oltre ad essere tacciato per codardo dal gruppo di ragazzi, dai loro parenti e da se stesso.
Decise di seguirli con la speranza di raggiungerli prima che combinassero qualcosa di irrimediabile e cercare per l’ennesima volta di farli ritornare sui loro passi.
Prese a volo un bus e si diresse verso la periferia Sud della cittadina, scendendo pochi isolati prima del bar in questione. La zona era quasi deserta poiché era composta per lo più da depositi e piccole fabbriche di artigiani che a quell’ora erano chiuse. Il proprietario del locale, oltre a lavorare di mattina e a ora di pranzo con i tanti operai e impiegati delle ditte intorno, sfruttava la quiete serale per fare del suo bar un punto di ritrovo intimo e discreto per coppie o persone che desideravano passare inosservati.
Ma quella sera la sua insegna era spenta e tutta la zona era sommersa dal buio. Il giovane si diresse cautamente sul retro del locale dove si vedeva un leggero bagliore. Arrivato all’angolo del cortile interno si affacciò e vide due uomini armati di pistola che alla luce dei fari di un’auto tenevano sotto tiro i suoi amici, ammassati contro il muro, poco distanti da alcune cassette della frutta incendiate e spente con un idrante antincendio ancora svolto per terra.
Probabile che i ragazzi fossero stati sorpresi mentre stavano realizzando il piano architettato da Sandro ed erano stati catturati da uomini che facevano paura non solo per le pistole ma anche per le loro espressioni dure e arcigne.
I ragazzi avevano dei validi motivi per tremare come foglie e abbracciarsi gli uni con gli altri per cercare un minimo di protezione; non era più un gioco, e la dimostrazione era davanti ai loro occhi. Poco distante dal gruppo c’era un altro uomo - che il nuovo arrivato riconobbe come il proprietario del bar – intento a prendere a pugni e calci Sandro, impossibilitato a difendersi o proteggersi da quella gragnola di colpi poiché quasi del tutto privo di sensi.
Le due pistole terrorizzavano gli altri cinque ragazzi che non riuscivano neppure a muovere un dito in difesa dell’amico nonostante l’uomo lo stesse letteralmente massacrando. Tutto il peso politico ed economico del famoso genitore non avrebbe potuto far niente per sottrarlo alla furia cieca dell’uomo che lo colpiva al capo e al corpo senza neppure rendersi conto che un solo colpo di quelli avrebbe potuto ucciderlo.
Il ragazzo nascosto nell’ombra non riuscì ad assistere impassibile a quella scena e uscì dall’angolo buio urlando e inveendo contro l’uomo che stava uccidendo il suo migliore amico. Gli saltò addosso scaraventandolo a terra, rimanendo avvinghiato a lui affinché i due suoi compagni armati non potessero usare le loro armi per colpirlo.
Il proprietario del bar, ripresosi dalla sorpresa, riuscì a infilare una mano nella tasca posteriore dei pantaloni e tirare fuori un coltello a scatto. Fu più la paura di essere colpito che non la volontà del giovane a far sì che afferrasse saldamente la mano armata dell’altro e l’alzasse di colpo per allontanarla dal suo stomaco. Per una vera casualità il coltello si conficcò sotto lo sterno dell’uomo, sparendo del tutto nel suo corpo.
Vistolo immobile, il ragazzo si allontanò da lui, dimenticando del tutto gli altri due uomini armati per lo shock causatogli il pensiero che quell’uomo fosse morto per mano sua, dando a loro la possibilità di sparare a colpo sicuro. Più che il dolore per i proiettili che si conficcarono nel fianco, nella schiena e nella coscia, quello che sentì furono solo i boati degli spari e le urla dei suoi amici. Alzò il volto e vide che i due uomini scappavano – probabile che fossero dei pregiudicati oppure le loro armi non fossero dichiarate – per poi non vedere altro che buio. Un buio così spesso che nessuna notte o nessuna grotta sotterranea potranno mai creare.

II
Aprì gli occhi ritrovandosi in una stanza d’ospedale. Ma forse per precisione avrebbe dovuto dire che socchiuse appena gli occhi, procurandosi parecchio dolore per quel semplice movimento. Come se le palpebre avessero perduto elasticità per non essere state usate per molto tempo. E così era stato!
Era stato in coma per quasi due anni, come seppe in seguito. Appena riuscì a focalizzare la scena nella stanza, vide seduto su una sedia a sdraio il burbero e severo padre che sembrava invecchiato di vent’anni dall’ultima volta che l’aveva visto. Lo guardò solo per un attimo nella sua posizione semisdraiata e capì allora che le volte che quando lo prendeva la mano e gli parlava piangendo come un bambino non era stato un sogno. Era suo padre che gli sussurrava di non arrendersi e di trovare in fondo alla sua anima la forza per superare quella terribile agonia. Era il padre il suo salvatore! E la sua severità di genitore non era una mancanza d’amore per il suo unico figlio ma era dovuta alla paura che il giovane non crescesse come lui considerava giusto o nel modo che riteneva opportuno in base alla sua educazione e mentalità.
Lentamente riuscì ad aprire del tutto gli occhi e cercò di articolare qualche parola, riuscendo solo ad emettere un suono roco e stonato. Ma Dio! Perché, anche se riusciva a muovere in parte le dita delle mani, non gli riusciva di alzarsi e ricambiare l’abbraccio del padre corso al suo fianco? Cosa gli era successo in quella infausta notte?
Seppe nei giorni seguenti cosa gli fosse realmente successo, e cosa era successo dopo che aveva perso i sensi. Lui e il barista erano stati trovati solo la mattina dopo dagli inservienti che erano venuti ad aprire il bar. Furono trasportati in ospedale dove il barista morì dissanguato e il giovane entrò in coma. Se invece di scappare e lasciarli divelti sull’asfalto ad annegare nel loro sangue, gli altri ragazzi oppure gli amici del barista avessero avvisato qualcuno che li avesse soccorso solo un paio di ore prima, l’uomo sarebbe sopravvissuto e lui non sarebbe arrivato così vicino alla morte.
Fra le lacrime il padre gli raccontò di quei terribili mesi. La vergogna che aveva provato l’onesto uomo e tutta la sua famiglia quando gli inquirenti dissero al telegiornale che sicuramente la sparatoria e l’accoltellamento fosse un regolamento di conto o una sporca storia di droga dove il giovane spacciatore aveva ucciso il suo grossista – pregiudicato per questioni inerenti allo spaccio e alla detenzione di stupefacenti – e fosse stato infine ferito dai complici di quest’ultimo.
«Ma allora adesso finirò in galera?» chiese al suo dolce genitore che aveva sempre sognato per l’unico figlio un futuro migliore del suo. Furono le sue lacrime a rispondergli e allo stesso tempo il giovane ebbe la risposta del perché potesse muovere appena la testa e le mani e sentisse il suo corpo finire appena dopo il busto. Seguì il suo sguardo che si fermò angosciato ad una carrozzella appoggiata alla parete, e non servirono più parole, non servirono più spiegazioni.
«Nooo!» urlò con il poco fiato che aveva nella gola.
Non così! Non era giusto che dovesse finire così la sua vita! Ma le ore in cui dalle vertebre lombari era fuoriuscito il midollo spinale erano state troppe, e se pure ci fosse stata una sola possibilità per salvargli le gambe, gli era stata preclusa dalla codardia dei suoi amici che lo avevano abbandonato come un cane rognoso fra le cassette della frutta bruciate.
L’unica speranza che i medici avevano dato ai suoi genitori era che, dopo l’uscita dal coma, avvenisse un miracolo e i suoi organi vitali incominciassero a funzionare meglio, ma i miracoli si contavano e si contano sulle dita, e non era scritto che per lui ci potesse essere un motivo per sperare in un miglioramento. Anzi, la diagnosi fu che con il tempo la paralisi degenerasse e sarebbe arrivato ad essere completamente paralizzato, tanto da dover essere nutrito dalle macchine.

III
I successivi vent’anni l’interprete di questa triste storia li ha trascorsi quasi sempre disperandosi per quell’assurdità capitatagli, e, nonostante fosse stato politicamente più corretto definirsi un diversamente abile, a detta dello psicologo, il suo problema più grave era che non accettava con rassegnazione la sua condizione e si sentisse soltanto un menomato incapace di fare qualsiasi cosa.
Il campo di calcetto e la piazza dove si rincorrevano erano rimasti troppo vivi nella sua mente, e in nessun giorno della sua tormentata esistenza ha potuto dimenticare quegli anni felici.
Avrebbe voluto dire non una ma cento volte allo specialista che lo seguiva e scriveva pagine su pagine sul suo stato psichico, cosa avesse fatto lui se si fosse trovato al suo posto. Come poteva accettarlo? Ma intanto viveva la sua triste esistenza, confortato dalla famiglia che aveva votato la propria vita allo sfortunato parente che non riusciva ad accettare quella sua condizione fisica e sempre di più si esasperava e si disperava.
Una volta gli venne in mente di ripulire il suo nome da tutto il fango che ci avevano buttato sopra gli inquirenti e i giornali e raccontò ad un avvocato tutta la faccenda del suo incidente dopo essere stato zitto per oltre un ventennio. L’avvocato, dopo aver criticato aspramente quei ragazzi, definendoli vigliacchi e criminali, disse che conveniva prima rivolgersi a qualche magistrato conosciuto per vedere se fosse stato possibile riaprire un’inchiesta chiusa tanti anni prima.
Gli diede i nomi degli altri ragazzi presenti la sera del dramma, talora potessero essere ancora rintracciati e con le loro dichiarazioni a conforto delle sue parole fosse stato più facile convincere il magistrato di riaprire l’inchiesta chiusa anni prima con la supposta colpevolezza del giovane, ma ebbe l’effetto contrario e il professionista deglutì di colpo leggendo quei nomi.
Il suo amico magistrato era proprio Filippo, il figlio dell’ufficiale dell’Arma che il mio amico paraplegico rispettava meno di niente. Considerando il suo carattere, era impensabile che lui adesso si fosse messo a difendere i deboli, ma più probabilmente li vessasse ulteriormente divenendo ancor di più un servo dei potenti, sfruttando il suo ruolo di magistrato. L’altro nome che aveva lasciato basito il legale era quello del caro amico Sandro, divenuto prima medico e poi politico, emulando in tutto il padre, anche nella corrente politica.
Ciò che fece il legale, dopo aver preteso un cospicuo acconto per le prime spese, dilapidando quasi il conto corrente del padre e i pochi risparmi che aveva accumulato personalmente con la sua modesta pensione di invalidità, fu quello di ingannarli per mesi dicendo che aveva smosso mari e monti, quando poi alla fine scoprirono tramite la cancelleria del tribunale competente che lui non aveva presentato nessuna istanza né richiesta a chicchessia e le sue erano state solo parole dette al vento.
Ma dopo tanti anni di silenzio era divenuto impellente in quell’uomo triste e sfiduciato il desiderio di chiarire quella storia e riabilitare il suo nome. Cosciente che il suo avvocato non avrebbe mosso un dito ed era stato anche così scaltro da venire a chiedergli altri soldi, sperando di ingannarlo ulteriormente, scrisse personalmente a Filippo e a Sandro, minacciando platealmente una sua dichiarazione dei fatti a mezzo stampa o tramite qualche rivista scandalistica, infangando i loro nomi per vendicarsi che anni prima era stato messo alla gogna il suo di nome per colpa della loro sconsideratezza.
Filippo rispose alla lettera con un’altra lettera, non degnandosi neppure di una telefonata, scrivendo che con una persona sospettata di far parte di una banda di spacciatori, che si fosse per giunta macchiata di un crimine efferato come l’omicidio e che per giunta a causa del suo handicap fisico non aveva neppure pagato per il proprio reato, non aveva niente da spartire, ed era sicuro di non averlo mai conosciuto in gioventù.
Sandro gli mandò un legale con la minaccia di querelarlo talora intendesse raccontare ad altri quell’assurda versione frutto della sua fantasia malata. Allora il povero malato pregò il suo legale di consegnargli una lettera, con cui in nome dell’amicizia che una volta li legava e del suo tentativo di salvargli la vita, gli chiedeva di dargli una mano nel progetto che aveva in mente da anni.
«Caro amico,» gli scrisse. «ti chiedo un unico grande favore: quello di far sì che venga presa in considerazione la mia richiesta di far cessare questo quotidiano tormento e mi sia data la possibilità di decidere io della mia vita adesso che le mie facoltà psichiche sono ancora considerate efficienti e sono ritenuto capace di intendere e volere. La mia malattia è irreversibile e presto sarò ridotto ad un vegetale. Prima che ciò accada, vorrei por fine alla mia esistenza chimicamente. Sono cosciente che la tua corrente politica – vicina agli ambienti cattolici e conservatori - è sempre stata contraria all’eutanasia, e avete sempre combattuto anche il testamento biologico. Ma io, in ricordo dei vecchi tempi, ti invoco di darmi una mano. Ti chiedo solo la libertà di morire conservando la mia dignità di uomo. Null’altro!»
Aspettò parecchi mesi per ricevere una risposta o solo un cenno dall’influente personaggio politico che spesso vedeva in televisione ed era considerato da tutti uno dei giovani più promettenti della politica italiana, e qualcuno aveva addirittura ipotizzato che avesse delle buone probabilità di diventare uno dei prossimi presidenti del Consiglio. Poi un giorno arrivò una lettera senza mittente con un biglietto non firmato:
«Eri un codardo e resti un codardo! Abbi il coraggio di affrontare i problemi in faccia e non scappare sempre!»
Il suo amico Sandro gli aveva dato la sua risposta. Non lo aveva mai perdonato di essersi tirato indietro e aver deciso di non andare con loro quella tragica sera. Per lui contava poco che si fossi immolato per salvargli la vita; non lo aveva assecondato nel suo piano e quindi era e rimaneva un codardo.
E pensare che lui li aveva seguiti proprio per evitare che succedesse loro qualcosa e fosse stato tacciato con quell’aggettivo dispregiativo. A pensarci, considerato che per Sandro e probabilmente per il resto dei ragazzi della piazzetta del monumento ai caduti lui era comunque un codardo, sarebbe stato meglio se non se lo fosse creato quel problema e se ne fosse tornato a casa mantenendo ferma la sua posizione di non commettere un’azione che riteneva abominevole e inutile. Codardo per codardo, meglio esserlo stato restando sano.
Ma si era fatta notte!

Epilogo

Gli ultimi anni li aveva passati cercando qualche rimedio per far diventare realtà la sua idea di smettere di soffrire, sia facendo intervenire associazioni che parlamentari e uomini conosciuti di ogni ambito culturale e sociale. Questa idea lo aveva sorretto e dato la forza di andare avanti. Ma la notte contro gli incubi né io né lui avevamo difese; non avevamo armi.
Il suo incubo ricorrente era veder picchiare una persona con il volto chino. Lui correva verso di lui e riusciva ad allontanare l’ombra dalla forma di una belva. L’aggredito alzava la testa e mostrava il malefico ghigno di un cobra pronto a colpire.
Spesso, però, nei sogni rivedeva gli anni della sua giovinezza, prima della disgrazia, sorridendo per quella anonima ma tranquilla esistenza che allora lo annoiava e invece dopo avrebbe pagato con la sua anima per ritornare a quel periodo.
Tali ricordi avrebbero potuto allietargli il sonno, ma il pensiero di come si era trasformata la sua vita in seguito a quell’unico gesto, commesso senza volerlo, rendeva anche i migliori ricordi degli amari ricordi che avrebbe preferito non rammentare più, relegando il tutto nell’oblio dell’eternità.

martedì 22 giugno 2010

Vita mia


VITA MIA


Vita mia come un fiume torbido
– che scorre lento –stai scivolando via.E mi accorgo che ben poche cascate hanno ravvivato un’esistenza
oppressa dall’oleosa melma quotidiana.

Ho provato a dare
una ragione all’umano cammino
non facendomi ingannare
dalla perenne ipocrisia di chi
cullandosi del proprio benessere
è sordo all’umana sofferenza
e si crede vivo solo perché mostra
la sua onnipotenza.

Ho cercato – invece – sui bordi
delle strade di periferia doveanime devastate bruciano le notti
cercando nel fuoco del gelido falò
il calore per riscaldare le loro angosce
e fanno compagnia
a carogne di ingenui animali
troppo puri per considerare
che laddove fosse esistita
una striscia di asfalto
ci sarebbe stata la loro morte.
Ho cercato d'intuire cosa ci fosse
negli apatici sguardi dei folli.
Quelli fra noi che –troppo sensibili –
hanno avuto il dono di
ottenebrare le loro menti ed essere
salvati dalla consapevolezza
di quanto sia inutile questa faticosa agonia
incominciata dal niente
e con mèta l’agognato niente.Ma troppo intensi erano quegli occhi
persi nel vuoto creatosi in essi
e – dell'intrigato mondo
che sorregge i loro corpi –
ho assorbito solo la frustrante angoscia
di essere vivi e non rendersene conto.
Anche la pazzia non basta allora!Anche la pazzia
scudo invisibile per tante afflizioni
non basta a giustificare
il quotidiano tormento
che ci imponiamo.
E allora aspetto che sia la vita
con i suoi astrusi disegni
a darmi la vera risposta
alla domanda che mi assilla:
Perché vivo?

giovedì 17 giugno 2010

LA PORTA CHIUSA - una poesia con metrica prosaica scritta con l'anima -


LA PORTA CHIUSA


Un’altra ora è andata!
Un’altra ora di questa opaca
e interminabile notte.

L’ennesima sigaretta
– rapidamente ha seguito
la sorte delle altre –
mentre immobile ed esausto
guardo verso la maledetta porta
che continua a restar chiusa.

La fisso con la speranza
che molto presto si apra
e non voglio perdere neppure un istante
di quella meravigliosa visione.
Ma continua a restare chiusa
e non ascolta la sommessa preghiera
che invoco ad ogni piccolo movimento
dell’ozioso orologio.

Un brivido…
«Dio com’è fredda questa stanza!»
Sento il freddo fin dentro le ossa
fin dentro l’anima.
Agghiaccia il mio cuore.

Riverberi del passato
– desideri del presente –
ma nell’oblio della mente
vedo la porta che si apre
e tu sorridente mi guardi
per poi sparire lentamente
attraverso la porta
inesorabilmente chiusa.
Accarezzo la tua ombra con gli occhi
prima che l’illusione svanisca
prima che la fredda porta
ti nasconda al mio sguardo
annientando anche i miei sogni
oltre che la vita.

Apriti maledetta!
Apriti per favore!
Lei è lì, oltre la tua soglia
che sta vivendo
– sta vivendo senza di me… –
E io intanto,
– impietrito come un cretino –
con gli occhi fissi verso la porta chiusa
lentamente sto morendo.

Vorrei correre, abbracciarti, baciarti.
Pregarti di perdonarmi.
Dimenticare tutto il resto e amarmi
ma sono dietro questa stramaledetta
porta chiusa – e anche se vicina –
non ti ho mai sentita così lontana.

Il tuo amore
era l’ultima cosa che mi restava.
L’unica ragione che mi impediva di impazzire
e – incolpando la porta chiusa – me l’hai tolto.

Sei il mio passato
e mi stai distruggendo
il mio già triste presente
annullando ogni mia speranza
per un futuro diverso.
Vorrei odiarti ma non ci riesco.
Impreco contro di te oscenamente
cercando nei meandri della mente
le parole più dure, più cattive.
Ma finisco sempre per parlar d’amore.
Ripudiare il mio amore per te
sarebbe come rinnegare me stesso.
Non posso far altro che sognarti
sperando che questa porta
si apra al più presto: e tu sia lì
– oltre la sua soglia –
innamorata come una volta.

martedì 15 giugno 2010

A MIA MADRE.


A MIA MADRE


Troppo grande
è il dolore:
anche il ferro
si dissolve.

Sul tuo viso
è caduta
la mia lacrima.

È il mio dono!
Portalo con te
nel nulla che vive.

domenica 13 giugno 2010

QUATTRO FORI - racconto -


QUATTRO FORI
I
Quattro fori dentro un muro di mattoni. Quattro fori ancora evidenti per i cerchi intorno ad essi fatti con del gesso bianco e dei numeri sbiaditi scritti per elencarli uno ad uno. Quattro fori, l’unico ricordo di una vita:… di una morte. Il primo foro era segnato con il numero 3, poi c’era l’1, il 4 e il 2. L’ordine sparso non rispondeva alle esigenze della metrica fantasiosa di chissà chi, ma probabilmente era causa della sequenza con cui gli investigatori avevano trovato le ogive - o parti di esse - oppure altri campioni per la balistica, e man mano avevano numerato in ordine crescente gli elementi rinvenuti.
Se si fosse fatta un po’ di attenzione, anche sull’asfalto e sul lastricato del marciapiede si sarebbero potuti notare altri segni che identificavano la zona in cui era stato ritrovato il corpo del giornalista Mario Manzi. Un giornalista che si stava specializzando nel raccontare notizie di cronaca e costume, troppo giovane per essere conosciuto e poco importante per essere ricordato.
Subito dopo la sagoma di gesso del corpo del giovane cronista c’erano alcuni cerchietti che continuavano la sequenza inaugurata sulla parete: 7, 8, 6, 5. Erano i quattro bossoli esplosi dalla semiautomatica calibro 9x19 con cui il killer aveva ammazzato il reporter di fianco alla sua utilitaria comprata a rate. Quattro colpi che indicavano, come una particolare carta d’identità, il valore dell’assassino. Se fosse stato un principiante o un incapace imbottito di coca, i colpi sarebbero stati sparati alla rinfusa, senza sapere come renderli letali ed efficaci. Ciò avrebbe fatto soffrire le pene dell’inferno a Mario, che sarebbe morto fra mille strazi in una stanza d’ospedale. Invece il lavoro fatto sul giovane e inesperto cronista era degno di un professionista del crimine. Due proiettili a quello che si definiva il bersaglio grosso: cioè lo stomaco e il torace; un proiettile a bruciapelo al cuore e un altro alla tempia per il definitivo colpo di grazia. Quella macabra sequenza lo aveva portato dalla vita alla morte senza che avesse neanche il tempo di accorgersene. Era morto senza un lamento, senza disturbare nessuno. Come infatti doveva vivere, se avesse voluto vivere, e non morire a soli ventitré anni.
Nel lato superiore della sagoma contorta di gesso c’era una lettera A, quasi del tutto svanita, e nei pressi del marciapiedi, poco distante dal luogo in cui era caduto il giovane, c’erano altri cerchi indicati con delle lettere: E, C, D, B; erano i reperti di materia organica, come il tessuto del cuoio capelluto, il sangue o i pezzi di massa cerebrale che dovevano essere analizzati dalla scientifica. Tutti diligentemente segnati dagli investigatori – con tanto di documentazione che descrivevano sia la posizione che il verso e la direzione - per dare ulteriori elementi ai medici legali per descrivere nei loro referti come si fosse svolto l’agguato e con quale dinamica, modalità e sequenza fosse stato eseguito. Ma quello che i medici non potevano scrivere, anche se avessero fatto centinaia di esami autoptici, era il perché fosse stato deciso quell’assassinio, considerato il mediocre spessore professionale di quel ragazzino alle prime armi, che per scrivere un trafiletto in sesta pagina copiava lo stile dei suoi colleghi più famosi. Quella era una domanda troppo complessa a cui solo poche persone avrebbero potuto dare una risposta esaustiva.
Erano due anni che lavorava come reporter esterno, o free lance, per il più famoso giornale cittadino. Il direttore, quando lui si era presentato con il suo diploma e l’attestato di giornalista ottenuto attraverso una scuola per corrispondenza, senza che avesse fatto neanche un solo giorno di tirocinio in qualche altra testata – se pur con una tiratura inferiore – gli aveva riso in faccia e gli aveva detto che ogni giorno fuori dalla sua porta c’era una fila lunghissima di persone laureate con tanto di master post universitari che chiedevano di essere messi alla prova, e non aveva tempo da sprecare con un ragazzo di vent’anni senza nessuna esperienza. Ma l’uomo non era diventato direttore di quel famoso giornale solo per i suoi agganci politici, ed era stato voluto dall’editore anche per le sue capacità professionali. Una di quelle capacità consisteva nel saper ricavare un guadagno per i suoi padroni da ogni situazione si presentasse, mostrando un intuito fuori dal comune soprattutto nella scelta dei propri collaboratori.
«Ragazzo!» lo chiamò bloccandolo sulla porta. «Scrivi articoli di un centinaio di caratteri e mandali in redazione. Se ti verranno pubblicati sarai pagato, altrimenti non prenderai un euro. Ti sta bene?»
«Certo che sì!» urlò entusiasta Mario. Era più di quello che avesse immaginato di ottenere.
«Allora dai il tuo nominativo alla signora che vedi seduta all’entrata e fatti dare un tesserino. Adesso le telefono e l’avviso. Ogni volta che avrai qualcosa di interessante, che non sia stato pubblicato da nessuno, dallo alla stessa donna in una busta chiusa intestata a me. Il tuo futuro in questo giornale da oggi in poi dipenderà solo esclusivamente da te! Dammi del materiale valido da pubblicare e io ti farò entrare come cronista in questo giornale.»
Il direttore in questo modo aveva tutto da guadagnare. Del tempo e dei soldi spesi per realizzare un eventuale servizio foto-giornalistico non doveva intervenire il giornale ma era il reporter a doversene fare carico. Solo se l’articolo fosse stato valido si sarebbe dato all’autore un piccolo contributo per coprire una parte di spese, e il reporter, in quei fortunati casi, avrebbe guadagnato quasi sempre solo in autostima. Lo stratagemma era quello di avergli dato un tesserino per farlo sentire vincolato al giornale nonostante nessun contratto lo legasse ad esso; e lui, da free lance, se veramente avesse avuto un articolo interessante da vendere, avrebbe potuto cederlo a chi gli avesse offerto di più. Ma di quei calcoli il giovane ne avrebbe fatto volentieri a meno. Il tesserino con il nome del giornale e la dicitura: Reporter, con all’interno il suo nome e la sua foto istantanea, sembrava ossigeno puro dato ad un moribondo. A vent’anni si è facile agli entusiasmi, si è facile vittima dei sogni, ma quello non era un sogno: era una magnifica realtà!

II
Cavalca l’onda!
Non ricordava dove avesse letto quella frase. Ma l’aveva fatta diventare il suo motto. «Cavalca l’onda, Mario!» si diceva mentre con la vecchia macchina del padre, adattata per i diversamente abili, girava per la città con la speranza che qualcuno o qualcosa lo ispirasse. Il padre, contento quanto il figlio di quell’occasione datagli dal destino, invece di smorzare il suo entusiasmo, facendolo ritornare con i piedi per terra, lo spronava ma allo stesso tempo lo assillava con centinaia di suggerimenti, aumentando la sua già immensa confusione.
«Cavalca l’onda, Mario!»
Ma come? Eccetto i velisti, i surfisti e tutti quegli sportivi con attinenze con il mare, dove poteva trovare la sua onda un ragazzo alla sua prima esperienza lavorativa come cronista? Cronista di cosa poi? Rosa, nera, attualità, sport, costume, cultura, società. Non se l’era mai posto il problema quando, finita la scuola, aveva incominciato a lavorare come ambulante per cercare di dare un aiuto al padre, che con trecento euro di pensione al mese e un’invalidità permanente poteva fare ben poco per la sussistenza della famiglia. E per fortuna la madre aveva trovato lavoro (in nero) in un’impresa di pulizie, altrimenti non sarebbe riuscito neanche a finire la scuola. Ma i sogni a volte richiedono dei sacrifici, e per il grande sogno di diventare un reporter d’assalto, Mario spendeva metà della sua misera paga frequentando un corso per corrispondenza per giornalista, rubando al sonno e alle uscite con gli amici tanto di quel tempo, non immaginando che non avrebbe avuto più l’occasione di recuperare tutte le ore che aveva occupato studiando come un forsennato per colpa di quattro pezzi di metallo sparati con ferocia nel suo giovane corpo. Grazie però ai suoi sacrifici, alla sua determinazione, all’amore dei genitori che lo spronavano sempre a seguire i suoi sogni, aveva ottenuto il sudatissimo attestato di giornalista - che non serviva quasi a nulla - considerati i tanti cronisti diplomati o laureati che cercavano lavoro; ma se tutto nella vita si fosse analizzato con raziocinio, dove sarebbero finiti i sogni? Ed era stato un sogno la molla che aveva spinto Mario a girare in lungo e in largo per la città con in tasca la piccola macchina fotografica 35mm compact del padre, una penna, un taccuino e tanta folle speranza. Ma i giorni passavano senza che nessuna idea lo rapisse o lo interessasse più di un’altra. Si dice che l’afflato colga l’artista all’improvviso, ma nessuno aveva spiegato a quel famoso soffio ispiratore che senza fondi non si poteva aspettarlo in eterno. I pochi soldi che aveva nel salvadanaio erano finiti, e se avesse voluto continuare a girare per i rioni cittadini, sperando di fare qualche servizio da presentare al giornale, doveva sbrigarsi. Nella testa c’erano milioni di articoli da prendere a volo e mettere su un foglio, ma nessuno di essi si faceva raggiungere, e scappavano tutti uno dietro l’altro, svanendo nel confuso oblio della sua mente.
Anche quel giorno volgeva al termine senza che avesse concluso nulla. Un giorno più breve degli altri poiché il padre aveva bisogno della macchina per recarsi alla visita annuale atta a confermare la sua invalidità e continuare a ricevere la pensione. Decise di andare con lui, così avrebbe passato qualche ora in sua compagnia, come faceva prima di dedicarsi anima e corpo a quel - fino ad allora – inutile impegno lavorativo.
«Forse ho sbagliato tutto, papà!» disse triste all’attento genitore che amava il suo unico figliolo più di se stesso e avrebbe dato l’unica gamba che possedeva pur di farlo felice. «Non so niente di questo lavoro. Non so da dove incominciare, cosa dire, come dirlo. Era tutto così semplice quando lo pensavo, invece adesso ho paura di sbagliare, e tutto quello che credevo interessante è già stato detto o si rivela privo di interesse.»
«È normale che tu sia confuso all’inizio, Mario. Basta che ti riesca di pubblicare un servizio e da lì prenderai spunto su come muoverti. Sei giovane e hai tanto tempo davanti a te.»
Continuando a guidare, Mario guardò con la coda degli occhi il padre, anch’egli giovane ma che l’amputazione alla gamba fino al bacino rendeva un povero disabile apparentemente più vecchio della sua età. Anche lui amava con tutto il cuore l’uomo, considerandolo non solo come suo padre, ma il suo amico più caro. Gli ritornò alla mente tutto il calvario patito dal padre quando dieci anni prima un tubo d’acciaio fissato male, nella ditta dove lavorava come operaio, si era staccato e lui con un balzo era riuscito a salvarsi, ma non aveva fatto a tempo a tirare via la gamba che era stata ridotta ad una poltiglia. C’erano voluti più di cinque anni di battaglie legali per chiudere l’inchiesta e riconoscere al povero operaio un risarcimento dei danni poco superiore alle spese che aveva sostenuto in quegli anni tra legali e visite mediche di parte. L’ultima offesa a cui lo avevano sottoposto era quella visita fiscale annuale, atta a riconoscere il perpetrare dell’infermità. Quasi che nel corso dell’anno la protesi in legno si potesse trasformare in una gamba in carne ed ossa, oppure potesse spuntare un arto nuovo dal moncherino della coscia.
Arrivati al presidio ospedaliero, Mario attese con il padre nella sala d’aspetto insieme a tante altre persone che dovevano passare la visita fiscale. Oltre a tanti diversamente abili per cui la visita fiscale era una formalità – se non proprio un’assurdità - alcuni pazienti in attesa erano evidentemente preoccupati, e il padre gli spiegò che erano persone che avevano subito degli interventi chirurgici, come operazioni al cuore o estirpazioni di tumori, che ricevevano una pensione di invalidità momentanea; e quella visita poteva significare la sospensione di quel sostegno previdenziale. Altri erano ancora più preoccupati e guardavano spesso l’uscita, quasi volessero istintivamente guadagnare quella via di fuga se le cose fossero volte al peggio. Erano i famosi invalidi per truffa, chiamati chi per la prima volta, chi già altre volte a sostenere la visita fiscale per ottenere o continuare a percepire la pensione. Fra loro c’era un arzillo vecchietto che leggeva il giornale con degli occhiali neri da sole – nonostante fuori fosse già sera – poggiati svogliatamente sui capelli, visibilmente indifferente a tutto ciò che lo circondava. Per quanto lo osservasse, Mario non riusciva a capire l’anziano di cosa soffrisse e chiese al padre se per caso non fosse uno dei disabili momentanei per motivi post operatori.
«Sono anni che faccio questa maledetta visita e l’ho sempre incontrato. È stato definito non vedente.»
«Ma se legge il giornale! E non solo i titoli, ma sta leggendo i vari servizi e opuscoletti.»
«Che significa? Se i medici scrivono che è cieco: lui per tutti sarà cieco. Poca importa che ci veda oppure no! Sta a vedere cosa fa quando lo chiamano.»
L’arzillo vecchietto continuò a leggere il giornale senza curarsi degli altri e appena fu chiamato disse: “Eccomi!”, abbassò gli occhiali scuri sugli occhi e prese un bastone da dietro la sedia facendolo scivolare davanti a sé alla ricerca di ostacoli nel lento movimento usato dai non vedenti.
«Pazzesco!» proruppe Mario. «E gli stessi medici che vengono presi in giro tanto platealmente da lui convocano te ogni anno per vedere se ti sia cresciuta la gamba? Credo di aver trovato il mio primo servizio giornalistico, papà! Ma ho bisogno di te.»
«Cosa vuoi che faccia?»
«Hai degli amici tra questi pazienti; parla con loro e cerca di venire a conoscenza di più particolari possibili delle loro storie. Mi interessano sia quelli che sono veramente invalidi che quelli - come quel vecchietto - che fingono spudoratamente. Per le foto, se non ti dispiacerà, un paio di scatti al tuo moncherino basteranno per indicare lo spreco di tempo per i medici e per dei poveri infermi costretti ad umiliarsi ogni anno sotto gli occhi di tanti – spesso – incapaci dottori che dichiarano te non invalido permanente e allo stesso tempo vengono gabbati da dei commedianti, o lestofanti...»
L’esordio di Mario nel mondo del giornalismo fu dirompente, anche se lo seppero solo lui e il direttore. Infatti l’uomo appena letto il servizio convocò il ragazzo e si fece spiegare tutti i particolari di cui era venuto a conoscenza sia dal padre che dai tanti che aveva intervistato. Mario aveva inserito, oltre a un buon numero di foto, anche alcune testimonianze di imbroglioni che – restando anonimi – gli avevano spiegato come riuscissero a truffare i preposti al controllo fiscale, oppure con quali sistemi corrompessero gli addetti alle visite per farli chiudere non uno ma tutti e due gli occhi. Il direttore aveva letto e sentito attentamente e parlò chiaro al giovane, spiegandogli come intendesse procedere con lui, lusingandolo ma allo stesso tempo facendolo intristire dicendogli che il suo vero nome non doveva comparire per ragioni di strategie pubblicitarie. Trovò per lui uno pseudonimo adatto al tipo di articolo da presentare e sconvolse tutto il suo testo con decine di tagli, aggiunte e correzioni. Di ciò che avesse scritto Mario, impiegandoci una settimana intera - notti comprese – si salvò solo il concetto di base e qualche frase di secondaria importanza. Ma l’umiltà e la modestia del giovane gli fecero considerare solo la gioia di vedere la sua idea pubblicata in terza pagina, e la consapevolezza di avere un mentore valido come il famoso direttore di quel giornale. Quella era tutta gavetta, e lui sarebbe stato uno sciocco se si fosse offeso. Si ritagliò invece l’articolo e lo rilesse migliaia di volte prima di darlo al padre per farlo leggere pure a lui, facendogli vedere i trecento euro che gli aveva dato il direttore per il lavoro consegnato. E poco importava che non ci fosse stato il suo nome a piede dell’articolo, e quel “Corvo nero”, non essendo registrato, poteva essere chiunque e chiunque ne poteva dichiarare la paternità. Ma per iniziare tutto andava bene, anche l’anonimato.
III
Il clamore a seguito dell’articolo di Corvo nero fu eclatante. Tanti procuratori si svegliarono da un lungo letargo e avviarono inchieste su inchieste che seguirono a ruota quella voluta dalla previdenza sociale, dichiaratasi parte lesa in tutte le inchieste a carico dei pazienti sospettati di mentire e dei medici legali corrotti, concussi o compiacenti. Venne a galla che, delle centinaia di persone ritenute invalide che superavano annualmente le visite fiscali, solo poche di esse avevano i requisiti per ricevere il sostegno previdenziale, e per contraltare, tanti altri pazienti aspettavano per anni la convocazione a tale visita affinché fosse riconosciuta loro l’invalidità.
Dalle indagini si passò agli arresti, ed il giornale pubblicò decine di articoli su vicende collegate o collegabili alle inchieste in corso. Con rammarico Mario dovette constatare che tanti redattori del giornale scrivevano a turno su quella vicenda da lui avviata, firmando con i propri nomi i vari pezzi, e di lui nessuno parlava. Quando chiese spiegazioni al direttore, questi finse di non aver sentito e lo spronò a trovare altri argomenti che suscitassero lo stesso interesse e creassero un eguale clamore. Presto sarebbe stato il suo turno di diventare famoso, per il momento chi avrebbe dovuto comparire erano i redattori più famosi e letti che potevano approfittare del successo dell’articolo del Corvo nero per smuovere l’interesse dell’opinione pubblica anche su altri argomenti, ugualmente spinosi, ma che non avevano la risonanza dell’articolo principale.
Come per l’attore che interpreta un personaggio, Mario divenne per tutti - e un po’ anche per lui - il nero uccello capace di scoprire tutto il marciume della società. Anche quello che era fin troppo palese e tutto (lo) conoscevano da sempre. Ma ciò che era mancato fino ad allora era chi avesse il coraggio di renderlo pubblico. Gli articoli del Corvo si succedevano l’uno all’altro, smuovendo le coscienze di tutta la gente su tanti argomenti di interesse pubblico. Ci furono articoli che toccavano le Istituzioni o i poteri forti, diventando spine nel fianco per il direttore e l’editore del quotidiano che ospitava i servizi del redattore anonimo. Ma sia all’uno che all’altro era evidente che la tiratura del giornale fosse aumentata da quando il Corvo era apparso con uno spazio settimanale fisso in terza pagina, e per evitare di rispondere alle domande su di lui o essere costretti a svelarne l’identità, avevano indetto una conferenza stampa in cui avevano dichiarato che gli articoli arrivavano in redazione anonimamente e loro non sapevano chi fosse l’autore.
Intanto Mario, o meglio: il Corvo nero, dopo due anni aveva ancora tanto da dire, ed era dispiaciuto quando il direttore gli scartava dei servizi che lui riteneva validi, prendendo in considerazione solo alcuni. L’esperienza che aveva maturato in quei mesi vissuti fra persone di tutti i tipi era servita a farlo crescere presto e fargli scoprire l’effettivo valore delle persone che avesse di fronte, direttore compreso; che come unico ringraziamento per il grande successo ottenuto dal suo giornale per merito di Mario, aveva consentito che il giovane potesse pubblicare come cronista indipendente qualche trafiletto a suo nome nell’ultima pagina della cronaca. Spesso era capitato che l’uomo leggesse con attenzione alcuni articoli e si riservasse di dare una risposta al giovane reporter sull’eventuale pubblicazione. E tanti, nonostante il parere contrario dell’autore, venivano ritenuti non interessanti o non in linea con la veste editoriale che si era data il giornale. Invece di cestinarli Mario li conservava facendone ben presto un vero archivio. Di tanto in tanto prendeva quegli scatoloni zeppi di fogli e li sfogliava cercando di tenere a mente nomi, luoghi e situazioni. Fu così che intuì chi fossero tutti gli amici occulti o legati ai soci della società di capitali che faceva capo al giornale.
Alla stessa società facevano capo varie testate giornalistiche e televisive e aveva interessi in molti settori dell’economia nazionale. Se il direttore non aveva voluto pubblicare quei servizi – o non aveva potuto pubblicarli – era senz’altro perché i personaggi coinvolti erano legati all’editore o ai membri del consiglio di amministrazione della società proprietaria del giornale. Il sospetto di Mario era che tutte le persone che fossero state attaccate dal giornale in quegli anni, sfruttando le scoperte del Corvo, fossero persone concorrenti dei magnati proprietari della testata giornalista oppure persone non coinvolte direttamente con i loro affari. Il giovane si sentì usato e raggirato. La sua indole bonaria lo consigliava di lasciar perdere e approfittare dei vantaggi che presto avrebbe ottenuto continuando a lavorare per quel giornale. Ma la sua estrazione proletaria gridava vendetta e incominciò a non trovare pace con quel martello pneumatico in testa a ricordargli quanto anche lui fosse diventato parte del marciume che cercava di combattere da due anni.
Prese tutti i servizi che aveva scartato il direttore in quegli anni e li lesse attentamente. Ne scelse un paio di quelli che gli sembravano particolarmente interessanti e si recò da un giornale concorrente, di tiratura quasi uguale a quello per cui pubblicava. Mario sapeva troppi particolari sulle inchieste aperte grazie agli scoop del Corvo, quindi la sua identità fu creduta dal direttore del quotidiano e fu trattato – per la prima volta - dal grande giornalista quale fosse. L’uomo lo invitò a sedere e aspettò paziente che il giovane cronista d’assalto si decidesse a parlare. Era importante dosare le parole per far sì che l’uomo non le travisasse o le utilizzasse a suo comodo. Più che mentire, decise di omettere alcuni importanti particolari sul motivo che lo aveva spinto a rivolgersi alla concorrenza e gli mostrò i servizi che credeva potessero interessarlo.
Aveva visto giusto! Il direttore si disse entusiasta di un paio di scoop sensazionali che avrebbero avuto la prima pagina appena si fossero accordati sul prezzo. Quando Mario gli chiese la cifra che percepiva dal solito giornale – con cui non aveva nessun contratto firmato nonostante ci lavorasse da tempo – l’uomo credette che il ragazzo lo volesse prendere in giro. Un articolo del genere, corredato da foto e da interviste ai diretti interessati, valeva migliaia di euro; altro che le poche centinaia di euro che gli aveva chiesto il giovane. Decise di dargli il doppio con la premessa che lui avrebbe inviato altri articoli del genere, non immaginando neppure che il cronista ne avesse già una decina, rifiutati dal precedente direttore. Mario non era però interessato principalmente ai soldi, e se era andato da un giornale concorrente non era per mercanteggiare sui suoi servizi giornalistici e ricavare di più, ma per placare la propria coscienza e cercare di diventare finalmente un giornalista famoso dopo aver pubblicato scoop su scoop anonimamente. La condizione che impose all’uomo fu che quell’articolo portasse in calce il nome dell’ideatore: Mario Manzi.
Il direttore stette a pensarci un poco. Il Corvo nero era divenuto famoso nell’ambiente giornalistico cittadino, e tutti – compreso lui – avevano pensato che fosse stato lo pseudonimo di un esperto giornalista come lo era il direttore del giornale su cui pubblicava il Corvo oppure il capo redattore. Venendo a sapere che invece fosse quel ragazzo sconosciuto, aveva sperato di poter utilizzare per il suo giornale la fama acquisita dall’anonimo cronista di tanti articoli spinosi, sottraendolo più facilmente alla concorrenza. Ma la condizione di Mario di pubblicare con il suo nome non avrebbe attratto i lettori come se l’autore fosse stato il famoso uccello vendicatore. Ci vollero pochi minuti per ideare un piano. Se Mario avesse acconsentito, avrebbe pubblicato quell’articolo e i prossimi con il solito pseudonimo e, dopo che avesse ottenuto l’esclusiva dei suoi servizi con tanto di contratto, sia come Mario Manzi che con il suo più famoso nomignolo, e quando tutti i lettori si fossero appassionati ai reportage del Corvo - letti stavolta sul loro quotidiano e non su quello più famoso della concorrenza - avrebbe svelato a tutti la vera identità del giornalista d’assalto che si nascondeva dietro il nome di Corvo nero, facendo diventare famoso Mario e dando al suo giornale la possibilità di farsi tantissima pubblicità con quello scoop nello scoop.
Come con il primo direttore, di tutti quei particolari Mario ne avrebbe fatto sinceramente a meno. Lui voleva scrivere, e soprattutto non voleva impedimenti su cosa scrivere o si sentisse di scrivere. I raggiri e la diplomazia non facevano per lui. Per questo si alzò dalla sedia e porse la mano all’uomo dicendosi d’accordo. Lo salutò promettendogli un articolo simile a quello che lo aveva sbalordito ogni settimana, consentendo all’editore di elaborare un programma editoriale in cui ci fosse uno spazio fisso per ospitare i suoi reportage.
Il primo articolo fu devastante quanto e più di quello di due anni prima. L’esperienza e l’apprendistato avevano dato a Mario la dote dell’incisività e quella della sintesi, e con poche frasi riusciva a coinvolgere la gran parte dei lettori, sensibilizzandoli su argomenti di interesse pubblico. Nell’articolo in questione si parlava del traffico dei clandestini e di tutti quegli appaltatori legati sia alla politica che alla criminalità organizzata che utilizzavano lavoratori in nero sottopagati, costringendoli a vivere in condizioni disumane identiche a quelle utilizzate nei lager dai nazisti durante l’ultimo conflitto mondiale. Le foto che ritraevano quei poveretti erano fin troppo eloquenti, e da sole potevano bastare per convincere le varie Procure interessate per questioni di territorio ad avviare decine di inchieste su altrettanti imprenditori (alcuni vicini ai proprietari del giornale che aveva rifiutato l’articolo di Mario). Poi c’erano le interviste a tanti parenti di persone che si erano recate a lavoro la mattina e invece di fare ritorno alle proprie abitazioni erano scomparse nel nulla, lasciando all’oscuro le proprie famiglie. Il sospetto che fossero state vittime di incidenti sul lavoro e fatte sparire per non denunciare l’accaduto era forte, e dato il numero esagerato degli scomparsi, un’inchiesta seria e scrupolosa avrebbe messo sotto sequestro e perquisiti i tanti cantieri dove erano stati fatti dei riporti o delle grosse strutture in cemento per scoprire se fosse stato occultato in esse corpi umani o parti anatomiche.
Il clamore del servizio giornalistico non era ancora scemato che Mario aveva già in mente quale articolo mandare al nuovo direttore. L’uomo era stato entusiasta del successo ottenuto e aveva parlato con l’editore. Questi aveva detto che altri due articoli eclatanti come il primo e poi avrebbero potuto organizzare una conferenza stampa in cui avrebbero svelato l’identità del Corvo nero, facendo di Mario un grande giornalista richiesto da tutti i giornali e persino dalla televisione di Stato.
Era felice! Finalmente poteva essere un giornalista. L’esperienza che aveva maturato in quegli anni e le decine di conoscenze fatte gli avrebbero consentito di muoversi liberamente in qualsiasi settore. Sarebbe stato divertente vedere le espressioni di tutti quelli che lo conoscevano come Mario, quando avessero saputo che lui fosse il famoso Corvo nero. Per adesso conoscevano la sua identità solo i due direttori dei giornali con cui aveva collaborato, e spesso, nei bar e ritrovi pubblici, aveva sentito raccontare storie fantasiose sull’identità del famoso giornalista.
Sorrise a quel pensiero mentre parcheggiava sotto casa l’utilitaria che aveva comprato di seconda mano. Scese e inserì la chiave nella serratura del veicolo per chiuderla quando si sentì chiamare.
«Mario!»
Fu l’ultima parola che udì. Poi due forti detonazioni lo stordirono e lui si trovò divelto per terra. Non aveva avuto neppure il tempo di sentire il dolore causato dai due proiettili penetrati nello stomaco e nel torace che la vista si annebbiò e di lui non ci fu null’altro che un amorfo disegno fatto con del gesso bianco sull’asfalto. Il Corvo nero era morto per sempre portando con sé il segreto della sua identità.



venerdì 11 giugno 2010

RISVEGLIO - racconto su come potrebbe essere più vivibili i rapporti sul posto di lavoro e con i familiari


RISVEGLIO

Il dolce zefiro filtra attraverso la finestra socchiusa e, con i raggi del sole mattutino come compagni, rallegra l’atmosfera della mia amata camera da letto. Destarsi con il radioso tepore dell’astro nascente è sempre stato sinonimo di vita; ed è la vita che scorre nelle mie vene e mi fa sorridere gioioso mentre guardo il cielo e dico «Grazie, mio Dio, di avermi dato l’umiltà di ammirare ciò che hai creato per noi.»
Fischiettando allegro, mi sono recato in bagno e ho incominciato a fare tutti quei gesti che l’abitudine di anni ha resi automatici – e solo chi non può più avere la pace di un quieto risveglio si rende conto di quanto siano cari gli oggetti che un uomo usa quotidianamente – il rasoio, la schiuma da barba con il pennello, il dopobarba. Non semplici oggetti, ma simboli di una vita che scorre serena. Senza troppi fasti, ma neanche molti patemi d’animo; con l’amore per le piccole cose e il rispetto per i grandi sentimenti.
Frattanto che riflettevo sul da farsi, l’aroma del caffè ha inondato tutto l’appartamento, e, con un sorriso di piacere, mi sono recato in cucina e ho visto mia moglie - la mia cara compagna in questa vita terrena – preparare la colazione. Mi sono avvicinato alle sue spalle e l’ho stretta a me incrociando le mani sul suo petto; le ho baciato con ironia, ma anche con un pizzico di malizia, il bellissimo collo, riempiendomi i polmoni con la magica fragranza della sua pelle vellutata. Lei sorridendo mi ha detto di smetterla, ma invece di sottrarsi al mio innamorato abbraccio, si è lasciata andare sul mio corpo, rendendo quel gioco terribilmente eccitante.
Avremmo fatto con piacere l’amore lì, sul tavolo, tra i toast e il profumo del caffè, se non fosse stato per l’irruento e festoso arrivo dei nostri due figli che ci sono saltati addosso e hanno preteso come acconto per la colazione tantissime coccole. Li ho guardati scherzare fra loro e mi sono sentito commosso e orgoglioso. Erano il mio sangue, combinato con quello della loro mamma, e, a differenza di tanti altri bambini, invece di prendere del tutto dai genitori, avevano ereditato da noi due solo le cose belle, come l’indole bonaria, l’intelligenza e il rispetto per tutti gli esseri viventi. Ho stretto la mano di mia moglie, anch’ella felice di vedere i nostri due tesori sani e felici, e con quella stupenda visione mi sono alzato dalla tavola e mi sono preparato per recarmi al lavoro.
Anche se, con due figli che ti adorano, non è facile prepararsi per uscire. All’eccesso del loro entusiasmo, prima pretendevano che io non andassi via, simulando un infantile cruccio, infine hanno insistito per venire con me. Solo dopo che la mamma li ha tenuti ironicamente prigionieri fra le sue braccia, sono riuscito a recuperare tutto il mio vestiario e recarmi a lavoro.
Era un giorno diverso dal solito. Il datore di lavoro, un imprenditore con decine di aziende in tutt’Italia, che avevo visto al massimo due volte in più di quindici anni in cui ero sui dipendente, la sera prima mi aveva fatto avvisare - ed aveva avvisato i miei diretti superiori, stanziati in uno dei tanti uffici ubicati nei pressi dei cantieri di loro competenza - di non andare in cantiere, ma di recarmi direttamente agli uffici cittadini di quella grande società di azioni, poiché doveva parlarmi personalmente.
Ad un arrivista non contento della propria posizione nell’organigramma dell’azienda, questo evento avrebbe creato una forte emozione; ad una persona non sicura del proprio operato, se fosse stato convocato lui dal proprietario di quell’azienda, nonché presidente del Consiglio di Amministrazione della società che faceva a capo di quella stessa azienda e di tante altre, avrebbe destato timore. Ma nessuna di queste sensazioni poteva incupire il mio viso, reso raggiante dal calore e dall’amore familiare. Io amavo il mio lavoro, lo svolgevo con passione, e non mi sarei mai sognato di lasciarlo per guadagnare di più o per occupare una mansione che mi avesse dato prestigio e potere sugli altri o agli occhi degli altri.
I tanti anni da disoccupato prima e precario dopo, mi avevano insegnato che un posto di lavoro che ti permetteva di guadagnare il giusto e, allo stesso tempo ti dava il tempo per stare con la tua famiglia, in questa epoca difficile, valeva molto di più di un lavoro super pagato ma che ti assillava con mille preoccupazioni e non ti dava neanche il tempo di vedere crescere i tuoi figli. La mia idea era sempre stata di insegnare a vivere ai miei ragazzi non con i soldi da regalare loro, ma facendogli sentire tutto l’amore e l’affetto che provavo per essi.
In tutta la mia vita non ero mai entrato in un grattacielo così alto! Questo fu il mio unico timore mentre l’ascensore sfrecciava fino al trentottesimo piano, dove il presidente si era assegnato per sé tutto il piano, occupato da segretarie e stretti collaboratori che sembravano più dei grandi manager da come vestivano e da come fossero sicuri di sé. Mi sono sentito un umile barbone venuto ad elemosinare alla porta di un nobile signore, con la mia giacca comprata anni prima in una svendita nei Grandi Magazzini. Ma, contrariamente a ciò che si fosse creduto, entrando in un ambiente tanto lussuoso, non mi osservarono con disgusto o indifferenza come avevo creduto, vedendoli tutti con abiti griffati e con espressioni disinvolte, ma mi sorrisero e mi chiesero se fossi il signor Rossi, e avuto la conferma che fossi io la persona attesa, mi chiesero con grandissima cortesia se fossi stato così gentile e paziente di accomodarmi nel salottino, frattanto che il presidente – o dottore, come lo chiamavano - si liberasse da un precedente impegno.
Avrei voluto che fossero stati presenti a quella cordiale scena gli impiegati dell’ufficetto ubicato a fianco del cantiere presso il quale lavoravo. Per noi operai, quando dovevamo entrare in quello squallido bilocale, sembrava si dovesse chiedere il permesso al Ministero per gli Affari Costituzionali. E pensare che ognuna di quelle persone che lavoravano nella sede centrale e che mi avevano accolto in modo così cordiale e umano – per niente mellifluo – era superiore per incarico persino al mio direttore. Ma le sorprese non erano finite. La prima la ebbi quando arrivò il mio diretto superiore tutto affannato, non dalla corsa ma dalla tensione che lo faceva sudare copiosamente, e fu costretto a fare la mia stessa identica procedura di identificazione.
Qualcuno forse si chiederà quale fosse stata la sorpresa che testé ho accennato? Era che lui, dichiaratosi dirigente, direttore, responsabile, coadiutore del presidente, eccetera, eccetera, venisse trattato con la medesima cortesia con la quale ero stato trattato io, dichiaratomi un modesto operaio. Per quei signori non c’era differenza, e chissà cosa avrebbero detto se avessero saputo che io, per avere un colloquio con la persona che avevano invitato a sedere al mio fianco e che mi guardava con sdegno, avevo dovuto attendere una settimana e fatto infine sei ore di anticamera in una stanza non riscaldata in pieno inverno.
Stando attento a non sfiorarmi con il gomito, casomai gli avessi sporcato con la mia giacca lisa, ma linda e pulita, il suo bel doppiopetto blu scuro a riga di gesso, messo per la prima volta in occasione di quella convocazione del grande capo, mi ha chiesto senza grazia e con arroganza per quale motivo lui non era a conoscenza che un suo operaio - invece di andare a lavorare - stesse a perdere tempo in un luogo ove non avesse niente da fare e che non doveva neppure conoscere dato il suo misero stato sociale.
Con la solita cortesia che uso quando dialogo con tutti, gli ho detto che la sera prima sono stato contattato tramite telefono da una persona che si era presentata come collaboratrice del dottore, scusandosi di non avermi convocato in via ufficiale mediante telegramma, ma essendo il motivo urgente e il presidente una persona molto impegnata, mi aveva pregato di usarle la cortesia di recarmi l’indomani presso quell’indirizzo, e avrebbero avvisato loro i miei diretti superiori per giustificare la mia assenza. Come se io non fossi una persona credibile e raccontassi frottole, per tutta risposta, l’uomo prese il cellulare e si informò della cosa con i suoi collaboratori, venendo a conoscenza, con disappunto, che avevo detto la verità. Finita la chiamata, tutto si sarebbe aspettato il mio “influente” direttore, all’infuori di venire redarguito da una delle segretarie per aver usato il telefonino e non averlo spento all’entrata, come indicava un cartello, non essendo ammessi tali oggetti in quegli uffici. A questo, l’uomo, sudando ancora più copiosamente la fronte e le mani dal nervoso, si scusò balbettando e si affrettò a tirare fuori dalle tasche i tre-quattro cellulari e spegnerli prima che uno di essi avesse suonato.
Vedere con quale indifferenza venisse trattato quell’uomo che si divertiva a fare l’arrogante con i suoi sottoposti, trattando da bestie noi operai e da schiavi i suoi impiegati, fu solo la prima delle due sorprese. La seconda fu quella di vedere la grande porta in legno intarsiato, che da sola costava quanto tutto l’arredamento del mio bilocale, e uscire una persona con i capelli candidi come la neve, anche se il viso sorridente sembrava molto più giovane di quello che poteva sembrare alla prima apparenza. Appena l’uomo aprì la porta, tutti scattarono in piedi, e io e il direttore facemmo lo stesso. A passi ampi e sicuri, l’uomo, sempre sorridente, si diresse verso di me e mi porse la mano che io strinsi con estrema delicatezza. Non era una mano molle da uomo inerte, ma una possente mano dalla presa d’acciaio che strinse la mia con vigore e aspettò che io facessi lo stesso a mia volta. E solo dopo aver stretto con tutta la forza della mia mano callosa e indurita dall’uso degli utensili da cantiere, lui rimase soddisfatto, mi poggiò l’altra mano sulla spalla e mi disse: «Vieni Rossi, ti aspettavo!» Lasciando imbambolato lo stimatissimo e sudatissimo direttore a cui non aveva neppure rivolto lo sguardo.
Cosa disse o pensò il mio superiore, non lo saprò mai, poiché non riuscii a voltarmi a causa del dottore che mi tenne la sua forte mano sulla spalla e mi condusse con sé nel suo immenso ufficio come se fossi un suo amico di vecchia data, illuminato a giorno dalla luce del sole che attraversava le ampie vetrate. Appena mi sono accomodato sulla grande poltrona in pelle, ho guardato più curioso che intimorito l’energico uomo che mi fissava anch’egli da dietro la scrivania colma di cartelle portadocumenti. Dopo qualche minuto di silenzioso esame, il carismatico uomo, come preambolo, mi ha narrato dei suoi inizi come manovale per pagarsi gli studi, delle tante privazioni patite e umiliazioni subite per emergere in un settore pieno di squali crudeli e voraci. Ma quello per cui mi ha sbalordito è stato quando mi ha elencato - senza guardare nessun foglio - tutti i lavori a cui avevo partecipato in quegli anni come semplice manovale. Alla fine della lunghissima lista, mi ha chiesto con un sorriso perché io non avessi mai chiesto un aumento né avessi chiesto di salire nella scala gerarchica con la speranza di avere un salario più adeguato alle mie capacità, o quantomeno fare un lavoro con meno spreco di energia fisica.
«Perché io amo il mio lavoro, e, considerato il periodo di crisi mondiale, sono soddisfatto di guadagnare il necessario che mi fa vivere bene a me e alla mia famiglia.» È stata la mia sincera e per niente piaggiata risposta.
«Ma tu hai l’esperienza e le qualifiche superiori a tutti i miei caposquadra, e in più, hai titoli di studio che ti permetterebbero di essere un tecnico. Saresti il mio direttore dei lavori più valido poiché conosci il mestiere meglio dei miei tanti geometri, e forse alla pari degli ingegneri e degli architetti che occupano tale incarico.»
Volle sapere perché io con il mio diploma non lo avessi sfruttato, ed è stato contento quando gli ho detto che era stato un fatto di emergenza quando era nato il nostro primogenito, ed io non mi potevo più permettere il lusso di essere precario e, per amore della mia famiglia, ho accettato il primo lavoro a tempo indeterminato che mi offrissero. Premettendo di non essere dispiaciuto per tale scelta poiché, finendo di lavorare alle cinque del pomeriggio – anche se mi svegliavo alle sei del mattino – tale orario mi permetteva di stare tutta la sera con i miei due piccolini. E quello era più gratificante di qualsiasi incarico prestigioso e ben remunerato.
Nonostante fosse una persona indaffaratissima e con i minuti contati, solo dopo questa amabile chiacchierata ha incominciato a dirmi il motivo della mia convocazione. In sintesi, mi ha detto che, con tutte le morti bianche che capitavano giornalmente, lui e tutto il Consiglio di Amministrazione cercavano da tempo di trovare un rimedio che frenasse queste stragi, così numerose da sembrare fosse diventata una vera guerra andare a lavorare e riuscire a ritornare vivi a casa propria. In passato avevano pensato che la maggior parte degli incidenti fossero causati dalla mancanza del rispetto ad ogni concetto di sicurezza, e spendevano centinaia di migliaia di euro in corsi di formazioni, indumenti, oppure attrezzi per far sì che il numero delle vittime diminuisse. Ma niente era servito a tale scopo. Neppure aver ridotto a loro spese a trentacinque ore la settimana lavorativa, lasciando la retribuzione uguale a quanto fosse stata a quaranta, affinché, considerato il lavoro usurante, non venisse mai meno l’attenzione, aveva contribuito ad abbassare il numero delle vittime. Come ultima risorsa avevano assunto dei consulenti per analizzare il problema alla radice e riuscire a trovare questo famoso rimedio. Il responso dell’equipe di esperti era stato che la causa di quasi tutti gli incidenti fosse dovuta al fatto che da anni non si faceva più nessun tipo di tirocinio giovanile, e tanti tecnici od operai incominciavano lavori che non avevano mai fatto per mancanza di alternative. La cosa più grave era la totale inesperienza, non solo dei lavoratori, ma anche dei direttori di lavori o loro sottoposti assunti per organizzare il lavoro, con buona pace per la sicurezza. E un tecnico con un’esperienza quindicinale nel settore, come me, che non aveva mai subito incidenti e conosceva tutti gli aspetti di quel lavoro, sarebbe stato un perfetto direttore dei lavori.
Con il più affabile dei sorrisi, il presidente mi ha detto che volevano attuare al più presto il progetto che avevano deciso i consulenti e realizzare un cantiere-modello che servisse per esempio e guida a tutti gli altri cantieri, e si potessero organizzare in esso corsi di apprendistato retribuito per i tanti subalterni di quella grande società. E, considerato per la prima volta l’assunzione di un dirigente soltanto per i propri meriti, ero stato ritenuto la persona più adatta per dirigere questo cantiere super sicuro e super efficiente per le mie qualifiche scolastiche, i tanti attestati di merito e la mia più che decennale esperienza come operaio in un cantiere.
Se avessi accettato l’incarico mi avrebbe dato lo stipendio che avessi richiesto; avrei avuto piena libertà di azione nell’assumere i collaboratori che avessi ritenuto opportuno far assumere, e carta bianca nell’acquisto di tutti gli indumenti e gli attrezzi ideati per la salvaguardia del personale in un cantiere edilizio. Avrei organizzato io i turni di lavoro: come dovevano essere distribuiti e quante ore doveva lavorare ogni operaio per essere sempre efficiente, mai però a discapito della sicurezza.
«È una bellissima proposta dottore. In questo caso potrei mettere a frutto tutte le idee che in questi anni ho sviluppato per la sicurezza nei cantieri.»
«E che raccontava ai suoi compagni di lavoro dopo ogni incidente, lo so!» mi ha interrotto il magnate, completando la frase al posto mio, e spiegandomi che era quello uno dei motivi per il quale ero stato scelto. Tra i miei amici operai e tra gli impiegati c’erano alcuni che ricevevano regali extra proprio per essere dei delatori e tenevano informato il C.d.A. di tutto ciò che succedesse nei cantieri. Si era scoperto non volutamente che i miei progetti per migliorare la vita degli operai erano i migliori che si potessero avere per efficacia, sicurezza e convenienza.
Per la prima volta le delazioni dei subalterni al titolare avevano avuto un esito positivo per qualcuno che venisse tradito, e mi sono finalmente convinto ad accettare, ma ad una cifra inferiore a quella esorbitante che voleva offrirmi, a patto di avere la piena libertà di poter adottare tutti gli strumenti più innovativi per proteggere uomini e cose nei cantieri, e l’acquisto di nuovi macchinari e utensili al posto di quelli vecchi od obsoleti, anch’essi concausa di tanti incidenti sul lavoro.
«Ma cosa dirà al mio direttore? Ho il timore che lui mi faccia pagare caro già il fatto che lei mi abbia invitato nel suo ufficio e fatto entrare prima di lui, facendogli fare tutta questa anticamera.»
«Se firmerà il contratto sarà lei il suo superiore e ne potrà fare ciò che meglio crede. Licenziarlo o fargli pulire i bagni. Ha carta bianca su tutto quello che riguarda il cantiere e gli annessi uffici.»
Dopo questa mia ultima remore, dovuta non al rispetto per la persona del mio superiore, ma al timore di incorrere nell’isterica e – troppo spessa – ingiustificata rabbia di quell’uomo che scaricava sui suoi sottoposti tutta la sua arrogante frustrazione, il presidente ha preso degli appunti, scrivendo una per una le mie richieste, e ha chiamato alcune delle sue segretarie e un paio di collaboratori, dicendo loro di preparare immediatamente il contratto da far approvare al C.d.A. prima di essere firmato da me, e a tale proposito ha chiesto ad uno dei suoi collaboratori più stretti di convocare il consiglio in mattinata per una seduta straordinaria. Mentre i suoi subalterni eseguivano i suoi ordini con lucida efficienza, lui mi ha invitato nella stanza a fianco dove c’era un accogliente salotto, e dove, appena ci siamo seduti, una ragazza molto graziosa ci ha servito caffè e pasticcini. Nemmeno quindici minuti dopo e hanno bussato alla porta, dicendo che tutto era pronto e aspettavano solo noi. E, per la prima volta nella trentennale storia di quella società, qualcuno che non fosse un membro del Consiglio di Amministrazione è stato accettato nella sala di riunione dello stesso, allestito per quasi tutta la sua larghezza da un immenso tavolo ovale in mogano, circondato da sedie in legno intarsiato e rivestite con damascato in seta, occupate da uomini e donne vestiti con abiti così squisitamente formali che io avevo visto gli stessi vestiti solo in televisione addosso a ministri o uomini di potere.
Per quasi tutta la mattinata sono stato a spiegare tutte le procedure che volevo adottare per rendere sicuro e vivibile il cantiere, ascoltato in religioso silenzio da quelle persone che avevano il potere di manovrare il destino di uomini e nazioni. E, dopo un applauso scrosciante, hanno sottofirmato il contratto da propormi confermando il loro esplicito, unanime consenso. Quando ho appoggiato la penna sul foglio per firmare a mia volta, uno dei collaboratori del presidente, seduto con gli altri segretari e dirigenti non facendo parte del consiglio su sedie disposte lungo il perimetro dell’immenso salone, ha preso da dentro un cestello colmo di ghiaccio una bottiglia di champagne e abbiamo suggellato con un brindisi l’accordo avvenuto.
Solo chi ha vissuto una vita mediocre e all’improvviso vede coronare tutti i sui sogni può immaginare con che leggerezza d’animo percorrevo la strada di casa, che facevo a piedi poiché con due figli e una moglie casalinga non mi sono mai potuto permettere di comprare e mantenere un’auto. La vita per la prima volta mi sorrideva, e ho guardato in alto verso il cielo per ringraziare Dio per tutto quello che avevo ottenuto. Alzando la testa, ho visto che l’orologio della banca, poco distante dalla mia modesta abitazione presa in affitto, nonostante fosse quasi mezzogiorno, segnava le cinque del mattino e faceva uno strano suono che somigliava molto al metallico suono della mia sveglia.
All’improvviso mi sono sentito spintonare su una spalla e mi sono girato, vedendo con sorpresa il viso addormentato di mia moglie che mi urlava di svegliarmi prima che quell’aggeggio infernale avesse svegliato tutto il condominio. Con un balzo mi sono messo a sedere sul letto, mi sono guardato intorno, vedendo non il cielo mattutino ma la mia squallida camera da letto. Ho impiegato vari minuti per rendermi conto che tutto quello che credevo fosse stato il più bel risveglio della mia vita, non era altro che un sogno. E dovevo anche sbrigarmi per non fare tardi se non volevo che quella carogna irascibile che avevo come direttore di cantiere, avesse approfittato del pretesto per il mio ritardo per licenziarmi senza preavviso, facendomi perdere anche quel miserabile lavoro sottopagato che mi consentiva appena di sopravvivere.
Mi sono alzato in fretta, e, per qualche strascico rimanente nella mia mente di quel bellissimo sogno, avevo pensato che dopo vent’anni di matrimonio mia moglie si alzasse almeno questa mattina per prepararmi il caffè, ma già da qualche minuto russava come un ubriaco raffreddato. A riguardo dei miei figli, li vedevo ogni tanto la domenica a pranzo poiché dormivano fino a che non dovevano fare le corse per prepararsi per andare a scuola, e la sera, quando ritornavo a casa, loro erano già usciti con gli amici e rientravano di solito non prima di mezzanotte, quando io, distrutto dal massacrante lavoro che facevo in cantiere, già stavo dormendo da due ore.
Il bagno era freddo e umido, e dalla finestra rotta entrava solo la puzza del fumo dei motori. Mi sono guardato nello specchio opaco vedendo la mia faccia divenuta grigia e anonima e mi sono depresso ancora di più paragonando il mio vero risveglio con quello che avevo sognato fino a qualche minuto prima. La speranza mi faceva dire che forse un giorno avrei avuto un risveglio del genere, ma la logica urlava alla mente e mi diceva: cretino, accontentati del sogno!

giovedì 10 giugno 2010

L’ipocrisia della gente per bene - racconto- denuncia contro la pedofilia, la vergogna della razza umana -


L’ipocrisia della gente per bene
(Prima pagina di un diario bagnato dalle lacrime)
Uno dei problemi più evidenti per i popoli dell’Est Europa, dopo la fine del blocco sovietico - o della famosa cortina di ferro - come la definiva Churchill, era che si stava diffondendo tra tante persone impreparate ad essere libere di decidere da sé, e con non molto spirito di iniziativa, una falsa concezione della democrazia.
Finalmente anche il popolo, e non solo i personaggi d’elite, avrebbe potuto acquistare nei tanti negozi avviati in poco tempo tutti gli articoli pubblicizzati dalle televisioni; ma con quali soldi? Per un solo capo di abbigliamento griffato gli operai e gli impiegati avrebbero dovuto spendere più del salario o dello stipendio che percepivano. Per migliaia di persone la situazione attuale si poteva definire peggiore di quella precedente e tutto era per loro ugualmente precluso. Se al tempo del regime comunista era proibito vendere o acquistare prodotti ritenuti di mero consumismo, con la democrazia i più potevano solo permettersi di guardare le vetrine senza neppure poter entrare in quei famosi negozi.
Tanti cercarono di riprendere il tipo di vita che facevano prima dell’avvento della perestrojka di Gorbaciov, accontentandosi dei prodotti locali e lasciare quella falsa libertà e soprattutto quella mistificazione di democrazia ai potenti, che avevano cambiato solo ideologia e bandiera ma erano sempre gli stessi di prima. Ma ciò non fu possibile per colpa dell’inflazione che saliva come un razzo verso la Luna. Gli anni precedenti con un modesto salario o con la pensione, grazie al controllo degli affitti e l’imposizione dei prezzi politici per i prodotti di prima necessità, come pane, carne e latte, si riusciva a sopravvivere, ora con la liberazione selvaggia dei prezzi, attuata per favorire magnati e mafiosi, non era più possibile e tante famiglie finivano in mezzo alla strada.
Forse era stato per rabbia, o frustrazione, oppure perché era il sistema più rapido per ottenere tutto ciò che si desiderava, che tanti ragazzi decisero di passare dalla parte della malavita organizzata e tante ragazze incominciarono a prostituirsi divenendo i primi manovalanza a poco prezzo per degli spietati assassini e le seconde vittime di speculatori che le facevano vendere per pochi rubli sia nei locali che per le strade.
Dopo solo pochi anni, si videro i migliori esponenti di una intera generazione vagare di notte nei luoghi di ritrovo ubriachi o drogati, con il solo ideale di cercare di sopravvivere quanto più tempo fosse possibile. Per contraltare, intorno a rinomati Hotel da mille dollari a notte, o nei pressi delle boutique delle più prestigiose griffe del mondo, vecchi che avevano fatto grande le proprie nazioni, a cui avevano tolto persino la voglia di vivere, si arrangiavano cercando di guadagnare qualche copeco vendendo frutta, verdura o manufatti.
Dei tanti uomini dell’Europa occidentale che si trasferirono in quei luoghi per affari o per trovare un nuovo posto dove poter ricominciare da capo la propria esistenza, pochi non sfruttarono queste maleodoranti piaghe create dalla novella democrazia, e approfittavano impunemente della povertà della gente del posto per togliere ad essa anche la dignità.
La Repubblica ceca, appena nata dalla pacifica scissione con la Slovacchia, presentava agli inizi degli anni Novanta molte occasioni commerciali e permetteva una vita agiata anche con pochi mezzi. Commercialmente era appetita dai grandi speculatori dell’Ovest, essendo situata proprio al centro di quella che sarebbe stata presto la nuova Europa, e poteva contare su buone risorse interne e di una popolazione bella e felice di essere finalmente libera di decidere il proprio destino.
Arrivarono in quegli anni sia in Boemia che in Moravia tanti uomini che cercarono oltre quella nuova frontiera un’alternativa di vita e speravano che almeno lì potevano migliorare i propri destini. Insieme a loro giunse però una marea di speculatori, con l’intenzione di approfittare di quella gente per continuare i raggiri commerciali già riusciti all’Ovest o nei Balcani, seguiti da molti personaggi più o meno loschi che si erano dati alla latitanza dai loro Paesi di origine.
Tutti quei nuovi abitanti avviarono le loro attività più o meno lecite, creando intorno alle zone di loro interesse dei nuclei residenziali dove la maggioranza era composta da una sola etnia, o da una sola nazionalità, nei quali erano invisi quelli che consideravano stranieri anche se fossero stati i natii di quella città.
Ognuno si industriava come meglio poteva. Italiani, Albanesi, Croati, Tedeschi, Austriaci, Bosniaci e tanti altri avevano trovato terra fertile per i loro commerci e facevano sì che le città non fossero più del solito plumbeo grigio come ai tempi del dominio monopartitico ma si colorassero di nuovi colori e si sentissero nuovi suoni. La disco-music si mescolava alla melodia delle canzoni napoletane, alla musica turca o alle canzoni albanesi, dando almeno all’apparenza un’impronta di calore fra i vari quartieri.
Le storture erano però tante, le ipocrisie pure. Tanti locali erano solo all’apparenza dei posti di ritrovo legali e nascondevano misfatti che pure il peggiore delinquente avrebbe aborrito. Il turismo sessuale imperava sempre di più. Accompagnato dall’ancora più spregevole sfruttamento della prostituzione minorile.
Quasi tutti i giorni si vedevano arrivare gruppetti di uomini che, con la scusa dei motivi professionali, approfittavano della povertà di quella gente per soddisfare le loro lascive voglie, preferendo quel luogo ai soliti Paesi esotici - che notoriamente permettevano l’incremento del turismo a scopo sessuale - poiché presentava il vantaggio di essere più facile da raggiungere.
Non pochi manager o falsi imprenditori decollavano dalle più grandi capitali europee con aerei di linea per arrivare in poche ore in quella nazione con la scusa di dover fare un’indagine di mercato o un sopralluogo giustificato dalla volontà di ampliare il raggio di azione delle loro attività, abusavano di una ragazzina, magari dell’età della figlia o della nipote, e ritornavano a casa per l’ora della cena da passare in compagnia di mogli e figli come bravi padri di famiglia.
Come quasi tutti i pomeriggi mi recai nel bar della hall dell’Hotel Indipendent dove avevamo una specie di luogo di incontro fra noi italiani. Ero molto conosciuto sia dal personale dell’hotel che dai ragazzi dei bar e dalle commesse dei vari negozi. Comprai il Corriere della Sera e La Gazzetta dello Sport che arrivavano con qualche giorno di ritardo e me ne andai dalla mia amica parrucchiera, facendo la sua gioia che si divertiva con i miei lunghi ricci.
I miei ventisei anni, il mio aspetto gioviale, il mio lavoro di fotoreporter e un po’ di disponibilità economica mi facevano sentire ben accetto da tutti loro, ed anche le ragazze che si prostituivano facendo finta di essere delle clienti del bar mi consideravano un amico. Sapevano, come anche gli altri dipendenti di quella grossa struttura, che io ero un ragazzo come loro che non si era mai dato troppe arie come facevano invece tanti stranieri benestanti.
«Klem, quando ti deciderai a fare l’amore con me?» mi disse ironicamente Leona, una delle entraineuse che lavorava nel night al piano di sotto, così bella che in Italia avrebbe fatto come minimo la modella. «Così mi faresti guadagnare i soldi delle bollette e non mi costringeresti ad andare a letto con vecchi bavosi.»
La guardai sorridendo. Aveva ventuno anni e la sera prima l’avevo vista nel salottino del privè costretta ad accontentare sensualmente un lascivo sessantenne austriaco. Il suo lavoro era di intrattenere i clienti e convincerli a consumare più bevande possibile, e per tacito contratto, solo se lei decideva liberamente di prostituirsi faceva affittare una stanza al piano di sopra al cliente. Anche se spesso erano i gestori dei vari locali a costringere lei e le altre ragazze ad accontentare i clienti più facoltosi con la minaccia di licenziarle; oppure erano i problemi familiari ed economici a decidere per loro, ed esse si trovavano nelle condizioni di non potersi permettere il lusso di perdere un cliente e accontentarsi della paga serale di intrattenitrice.
«Sai bene che sono contrario a dare dei soldi per le prestazioni sessuali. Piuttosto dimmi se ti serve un prestito e te lo faccio.»
Il nostro era un gioco che durava da anni. La conoscevo poiché la sua famiglia abitava nello stesso palazzo dove abitava la famiglia della mia convivente, e spesso era venuta a sfogarsi con lei. Parecchie volte le avevo proposto di lasciare quel lavoro e venire a fare la segretaria nella mia agenzia, ma nonostante fosse appena maggiorenne, mi aveva risposto che faceva quel lavoro da quando aveva quattordici anni e non si sentiva pronta di ritornare ad una vita normale.
Alcuni ospiti dell’Hotel di nazionalità italiana, ascoltarono il nostro dialogo fatto in italiano e si avvicinarono con la classica frase:
«Ma sei italiano? Piacere io sono Roberto di qua o Pasquale di là.» Dissero convinti che poiché si parlasse la stessa lingua ci sarebbe stato di sicuro qualcosa d’altro in comune.
Dopo le presentazioni e aver salutato Leona ci siamo seduti ad uno dei tavoli di fronte al bar e ho offerto loro da bere. Erano degli imprenditori con interessi politici, arrivati in quella città per sponsorizzare le bellezze dei loro personali stabilimenti balneari e le altre attrattive della loro zona alla fiera annuale del turismo, cercando di vendere dei pacchetti vacanza.
Mi chiesero cosa facessi lì e come facevo a conoscere ed avere confidenza con ragazze belle come Leona o la parrucchiera, io gli dissi abbastanza laconicamente che ero alcuni anni che vivevo in quella città.
«Allora fai al nostro caso!» mi disse uno dei due con un tono confidenziale che io non gli avevo permesso. Già il loro modo di vantarsi di stare lì sovvenzionati dalla Regione, con i contribuenti che avrebbero pagato affinché loro si divertissero, mi diede enormemente fastidio e mi diede il contrappeso per valutare chi avessi di fronte. «Dobbiamo stare tre giorni in questa città e ci hanno detto che ci sono dei locali dove si trovano molte ragazze con cui divertirci un po’.»
«Qualsiasi tassista con cento corone vi potrebbe portare in uno di questi luoghi. La città ha il più grosso assembramento di casinò e di bordelli della regione. C’è di tutto! E vi garantisco che la ragazza che avete visto parlare con me nel negozio di parrucchiere è la metà bella delle tante giovani ragazze che si prostituiscono nei locali notturni.»
«Ce l’hanno detto, ma noi vorremmo qualcosa di più emozionante.»
Osservai meglio i due uomini con le loro giacche impolverate di forfora, le camicie a righe e le pancette prominenti, a cui istintivamente mi ero già pentito di aver offerto i due cocktail. Erano sulla cinquantina ed erano anche messi fisicamente male. Ragazze giovani e belle come Leona potevano vederle solo sui manifesti pubblicitari, eppure, a detta loro, lei non era abbastanza emozionante. Fu più per curiosità che chiesi cosa intendessero per “più emozionante”.
I due si guardarono per qualche istante, indecisi se confidarsi con me. Infine si decisero e mi dissero che un loro collega imprenditore aveva stimolato la loro curiosità raccontando delle vere meraviglie sulle occasioni che potevano capitare in quei luoghi a persone che erano disposte a pagare delle grosse somme di denaro.
«In parte è vero.» annuii. «Ci sono locali nei quali basta solo mettersi d’accordo sul prezzo per avere soddisfatta qualsiasi fantasia sessuale. Ma sono luoghi in cui si entra solo con le tessere da soci oppure se invitati da un iscritto.»
«Infatti il nostro amico ce lo ha spiegato che per una questione di discrezione e di sicurezza si va in tali luoghi solo con persone conosciute e di assoluta fiducia.» confermò quello che sembrava il più anziano e intraprendente dei due, asciugando il copioso sudore che gli usciva dalla fronte. Lo vedevo già con una frusta fare la parte del dominante in un perverso gioco sadomaso.
«Appunto andando in un locale del genere che gli hanno fatto una stupenda proposta che lo ha entusiasmato moltissimo.» aggiunse l’altro. «Pagando il triplo delle solite tariffe lo hanno portato in una stanza già predisposta per lo scopo e hanno consegnato a lui e agli altri due con cui si accompagnava delle maschere con cui nascondere completamente il viso. Da una porticina laterale sono entrate due ragazze molto giovani e l’addetto al locale ha detto che per un’ora avrebbero potuto fare qualsiasi cosa passasse loro per la testa con le due ragazze a patto che autorizzassero un inserviente a riprendere tutta la scena con delle telecamere.»
Deglutii a fatica un groviglio di saliva amara, cercando di nascondere ai miei interlocutori tutto il disgusto che provavo. Avevo sentito già che in alcuni locali realizzavano filmini pedopornografici utilizzando bambini e bambine sequestrati che venivano torturai e spesso uccisi. Sia io che i miei due fedeli amici e soci in affari avevamo cercato di realizzare un servizio di reportage giornalistico per convincere qualche magistrato ad aprire un’inchiesta su quel macabro commercio, ma eravamo stati minacciati da alcuni loschi figuri che ci avevano imboniti a non fare più domande in giro su quell’argomento.
Per un uomo con tanto amor proprio e molta idiozia, come me, l’essere costretto a non fare qualcosa per il veto dato da qualcuno non era altro che un motivo in più per accendere il mio interesse sulla questione. Ma gli ignoti protettori di quel marciume disumano che favorivano tale lurido commercio mi avvisarono nel più convincente dei modi a desistere. Mi aspettarono all’uscita della mia agenzia e mi distrussero la fiancata dell’auto con una scarica di mitra.
Per nulla quietato da quell’avviso, volli insistere e venire a conoscenza degli autori di quell’azione minacciosa nei miei confronti. Tramite le confidenze di un mio conoscente, ex funzionario del KGB e della Stasi, seppi che gli uomini che avevo contro in quella situazione erano appartenenti alle Forze dell’ordine che, non contenti della magra paga, garantivano ai proprietari di quei luridi locali una protezione quasi totale, sia da parte di un’eventuale inchiesta che contro i curiosi come me e i miei amici reporter.
«Vi rendete conto che questo vostro amico ha realizzato un film che poi verrà venduto su internet ai pedofili? Ci scommetto quello che volete che le due vittime non erano due ragazze ma solo delle bambine costrette dai loro aguzzini con le minacce a fare tutto quello che ai clienti passava per la mente.»
La risposta dei due fu un’indifferente alzata di spalle e un sorriso sardonico. Come chi se ne importasse meno di niente della triste fine a cui erano destinate le due poverette e tutti i bambini che le avrebbero seguite. Li vedevo già da un lato stare a tavola con i parenti e criticare le notizie di cronaca con pedofili come soggetti mentre dall’altro lato raccontavano spavaldamente agli amici di come si erano divertiti a vessare delle vittime innocenti.
La mia anima di antico difensore medievale dei più deboli avrebbe preso la spada e decapitato i due mentre sogghignavano sardonicamente al pensiero di cosa avrebbero potuto fare se si fossero trovati nella condizione di poter agire contro delle bambine di età inferiore alle loro figlie. Ma la società civile e le leggi fatte troppe volte proprio per agevolare i ricchi uomini, come quei due, non mi avrebbero mai perdonato quel gesto e io mi limitai ad alzarmi, prendere uno stelo di un faretto posto in un angolo e romperglielo in testa.
Il servizio d’ordine si apprestò a correre in loro soccorso. Mi tennero fermo e io dissi in ceco ai due grossi vigilanti.
«Mi hanno chiesto di indicare loro il locale di Predik.»
Non servì dare altre spiegazioni. I due poliziotti privati erano a conoscenza delle dicerie che si facevano sul locale di quello schifoso di ex ufficiale dei reparti speciali dell’esercito passato nell’ala più infame della mafia e sui locali simili al suo. Mi lasciarono le braccia e si avvicinarono ai due a cui i miei colpi avevano fatto sanguinare le teste. Li osservarono per qualche istante e poi uno sputò loro addosso e un altro sferrò un calcione al più vicino, così forte che si sentì un rumore di ossa spezzate.
Insieme ci recammo al bar lasciando i due imprenditori per terra. Il cameriere che aveva assistito a tutta la scena ci versò da bere e chiese a tutti i presenti di fare un brindisi in mio onore. Per una volta la dignità aveva prevalso sull’ipocrisia di uomini che celano le loro vere anime di essere ripugnanti con gli abiti eleganti.