lunedì 31 maggio 2010

AUSCHWITZ


AUSCHWITZ
(Terza pagina di un diario bagnato dalle lacrime)
Il cielo era immerso in un pallido grigiore e rendeva tutto il paesaggio dello stesso colore. La pioggia incominciò a cadere fitta e sottile, accompagnandomi con il suo monotono martellio per tutto il viaggio da Brno al confine ceco-polacco di Cesky Tesin.
Data l’ora tarda e il tempo inclemente decisi di fermarmi a dormire sul versante ceco e oltrepassare il confine solo al mattino dopo. Pernottai in un accogliente albergo, che mi ricordava moltissimo le tranquille locande delle province austriache e gustai un buonissimo gulasch, cercando di rilassarmi il più possibile per affrontare con tutta la mia efficienza psicofisica l’importante riunione di lavoro che si sarebbe tenuta a Katowice.
Dopo una truffa che avevo subito un paio di anni prima, ero stato costretto a dichiarare fallita la mia agenzia di fotografie e pubblicità e da più di un anno ero responsabile agli acquisti della multinazionale Lucres s.p.a. con sede in Repubblica ceca e con succursali in tutta Europa. Nonostante non amassi essere comandato da nessuno, se avessi voluta riaprirne un’altra agenzia avrei avuto un bisogno vitale del lauto stipendio che mi versavano alla Lucres.
Fino al disastroso crac economico, il lavoro di fotografo mi stava dando molte soddisfazioni. Le più belle modelle fra quelle ancora non famose e gli aspiranti modelli e indossatori venivano da me numerosi per degli stage o per fare i book fotografici poiché ero uno dei pochi del settore a trattarli come persone e non come carne da macello da utilizzare a proprio piacimento.
Ai più promettenti proponevo un contratto da semiprofessionista per due anni, con la garanzia di farli partecipare ad almeno sei servizi pubblicitari o modellistici. Loro avrebbero percepito uno stipendio fisso e in cambio cedevano all’agenzia il 24 per cento dell’importo al netto delle spese per ogni ulteriore servizio non previsto dal contratto. In quel modo se una grossa agenzia voleva farli partecipare a qualche loro campagna pubblicitaria, non venivo abbandonato su due piedi e avevo anch’io la mia parte di guadagno.
Ciò capitava rarissime volte. Solo uno su tanti riusciva a sfondare in quel mondo. Il più delle volte ero io che dovevo industriarmi per procurare loro i servizi stabiliti dal contratto e recuperare con essi lo stipendio che anticipavo. Ma a causa delle mie vicissitudini bancarie ero stato costretto a mettere da parte le difficoltà di fotografo di moda e pubblicità e in quel momento la preoccupazione era per la mia posizione in seno alla grossa società, poiché il ruolo di responsabile agli acquisti era appetito da tanti, e già per due volte in pochi mesi durante il consiglio di amministrazione era stata messa ai voti la proposta di sostituirmi. Se l’affare di cui mi stavo occupando in quei giorni fosse andato male, neppure essere amico del proprietario del pacchetto di maggioranza della Lucres sarebbe bastato a conservarmi il posto.
Riflettei sullo strano caso che mi aveva portato a conoscere il fondatore di quella società commerciale che si occupava di moda, di ristorazione e di quant’altro poteva essere economicamente vantaggioso. Roberto Leoni, era un imprenditore di origini campane partito da zero con un ristorante senza troppe pretese. Dopo una ventina di anni, però, grazie alle sue immense capacità manageriali, possedeva il pacchetto di maggioranza della Lucres, una società che tramite le tante succursali gestiva una quindicina di negozi di abbigliamento griffato, una ventina di bar e ancor più aree di servizio intorno ad altrettanti ristoranti, dove si riforniva i clienti di tutto: dal carburante all’abbigliamento.
Per volere dello stesso proprietario, tutti i punti di vendita dovevano proporre gli stessi prodotti, acquisiti dalla Lucres in esclusiva e con impresso il nome della società. Così si poteva controllare meglio la contraffazione e si era a conoscenza che qualsiasi articolo visto in giro con quel logo doveva per forza di cose essere stato acquistato presso la nostra catena.
Saputo da alcuni amici in comune che eravamo nativi della stessa zona, Roberto mi contattò personalmente e volle complimentarsi con me per la discreta fama acquistata in poco tempo grazie al mio lavoro. Mi propose di occuparmi dell’organizzazione di alcune sfilate di moda nei suoi migliori locali e interessarmi alla preparazione di un nuovo logo per la Lucres. Dopo pochi incontri eravamo già sul buon punto di diventare amici e incominciamo a vederci non solo per motivi di lavoro ma anche per diletto.
Nonostante con il mio animo di socialista utopico spesso ero in contrasto con Roberto, ascoltando i concetti che aveva della vita, grazie alla sincerità con cui ci parlavamo imparai molto sia sugli uomini di potere che sul loro mondo.
«Roberto, spiegami questo, allora.» gli chiesi dopo un ragionamento che non mi aveva trovato per niente d’accordo. «Perché continui a lavorare per più di dieci ore al giorno, con tutto lo stress che ti creano queste tue innumerevoli attività, e non vendi tutto? Con i soldi che hai e con quelli che ricaveresti dalla cessione delle tue azioni della Lucres, vivresti da nababbo per dieci vite umane.»
«Hai ragione, Klem, sarei ricco e potrei permettermi tutto, ma non sarei altro che un uomo benestante di cui tutti vorrebbero approfittare per spogliarlo delle proprie ricchezze. Non avrei il potere che ho adesso. Nessuno più penderà dalle mie labbra quando io apro la bocca anche solo per starnutire. Nessuno più avrà timore di dire o fare qualcosa che potrebbe non garbarmi. Nessuno più verrà da me per implorarmi di assumerlo o di non licenziarlo. Questa supremazia sociale sugli altri è una droga che non ha prezzo. E chi l’ha assaporata non sa farne più a meno.»
«Ma tu rischi ogni giorno l’infarto. Ti rendi conto che perderesti ugualmente tutto se lo stress da super lavoro ti causasse un danno fisico del genere?»
«Poco importa! L’importante è essere il numero uno fino a quando sarà possibile. Sei giovane e sei un idealista. Non potrai mai capirmi fino in fondo su questo.»
Ed erano tante le cose che non condividevo, ma ci univa un profondo e reciproco rispetto, e quando mi crollò il mondo addosso, economicamente parlando, per alcune mie valutazione azzardate, Roberto mi invitò a prendere il posto lasciato libero da un dirigente dimissionario. Dovevo occuparmi di regolare e controllare gli acquisti di tutti i punti venditi di una zona molto vasta, in collaborazione con il responsabile alle vendite, e fare un resoconto settimanale personalmente a Roberto.
Sfruttai quel ruolo di responsabilità portando le mie idee di vita sul lavoro e non come gli altri che si plagiavano e si facevano influenzare dall’ambiente che trovavano. Insieme a tanti prodotti di benessere, inserii anche prodotti a largo uso commerciale che favorivano i clienti meno abbienti e non facevano la concorrenza ai piccoli negozi, come da sempre chiedevano in consiglio di amministrazione, indifferenti di creare danni agli altri con la scusa che in commercio tutto era lecito.
Il mio ultimo progetto era appunto di tipo sociale. Mi ero accordato con una fabbrica di cioccolato austriaca che avrebbe prodotto in esclusiva per noi un tipo di cioccolatino molto amato dai bambini. La mia idea era di farne dei piccoli zaini di stoffa pieni di quella prelibatezza e metterli sulle spalle a dei peluche di qualità che produceva una ditta di Katowice.
Il prezzo doveva essere quasi politico per far sì che i genitori di tutti i ceti sociali potessero regalare ai figli qualcosa di buono insieme a qualcosa di bello. Ma dopo il primo iniziale successo del mio “Sweet plush” i polacchi avevano giocato a rialzo e, nonostante avessimo noi della Lucres il marchio registrato, prima di togliere a quella famosa ditta la possibilità di fabbricare i pupazzi, volevo sentire le loro pretese. Se non ci fossimo messi d’accordo io avrei dovuto concludere il contratto con loro a favore di un’altra fabbrica, ma loro potevano benissimo sfruttare la scia di successo della prima ondata di peluche facendosi pubblicità con la dichiarazione di essere i fabbricanti e lanciare un prodotto quasi simile.
Se fosse successo, dato che gli imprenditori di Katowice erano stati indicati da me, i miei denigratori avrebbero decretato la mia incapacità nello scegliere i collaboratori e fatto il possibile per togliermi il mandato e Roberto si sarebbe trovato fra due fuochi.
Con quello stato d’animo abbastanza preoccupato superai la dogana e mi immisi sulla statale 933 che mi avrebbe portato al bivio con Cracovia, e da lì grazie alla statale 934 sarei arrivato a Katowice, la capitale del Voivodato di Slesia, per l’ora di pranzo. Il tempo tendeva a peggiorare. Nonostante si fosse in primavera faceva freddo e la nebbia si univa all’umida foschia che saliva dai boschi, rendendo tutto il paesaggio grigio. Oltretutto la fitta pioggia non faceva vedere più lontano di pochi metri.
Sobbalzai di colpo a causa di un oggetto che avevo urtato sulla carreggiata, e solo grazie alla moderata velocità non finii fuori strada. Per evitare che le macchine provenienti alle mie spalle mi tamponassero, parcheggiai sul bordo della carreggiata tra scossoni tremendi dell’avantreno. Il danno era consistente. Un tronco, probabilmente caduto dal cassone di un camion, era al centro della carreggiata e si era ficcato sotto le ruote distruggendomi una ruota ed alcuni componenti meccanici della mia Volkswagen.
A spostarla senza un carro attrezzi era impensabile, quindi mi avvicinai al bordo della strada e cercai di attirare l’attenzione di qualche automobilista. Ero fradicio per la pioggia quando si fermò un piccolo furgone. Non conoscendo io il polacco né lui l’inglese, l’uomo riuscì a spiegarmi a gesti che oltre il campo alla nostra destra c’era un piccolo borgo dove c’era un’officina meccanica. Se avessi seguito la strada avrei impiegato molto di più che non attraversando la campagna.
Lo ringraziai e mi affrettai a raggiungere il meccanico per far togliere la mia auto dalla strada e farmi chiamare un taxi. Qualche minuto prima dell’impatto avevo visto che un cartello indicava la cittadina di Oswiecim a pochi chilometri, ero quindi a meno di un’ora da Katowice.
Dall’alto della strada sembrava che il borgo fosse vicino, invece a causa del suolo accidentato e fangoso dopo un’ora di marcia forzata non ero neppure a metà strada e dovevo percorrere ancora un boschetto di altissime betulle per raggiungere le case che si notavano attraverso la foschia.
Nel fitto del bosco la già scarsa luce svanì del tutto, e io riuscivo a distinguere appena i fusti degli alberi che mi si paravano davanti. La pioggia cadeva sempre più fitta e i brividi di freddo mi facevano perdere quel poco di lucidità che mi restava. Mi resi conto di aver perduto l’orientamento, e se non fossi stato attento avrei camminato in cerchio. Il rimedio dettato dalla logica era di salire su di un albero e fissarsi bene in mente la direzione da prendere, evitando poi di girare sempre nello stesso verso, ma alternando uno spostamento in una direzione con un altro verso il lato opposto se per caso il suolo accidentato o il bosco fitto mi avessero costretto ad una deviazione forzata.
Avevo bisogno di capire dove fosse quel borgo prima di continuare il cammino e smarrirmi. Un’altra ora sotto quella selva fradicia d’acqua e avrei rischiato di svenire per la mancanza di forze a causa dell’ipotermia. Ma con un vestito e delle scarpe eleganti non era per nulla facile arrampicarsi su un albero di venti metri dritto come uno minareto. Non avevo un ricambio di vestiti e per non rovinarla del tutto decisi di poggiare la giacca su una roccia sporgente. Sedetti su un tronco divelto e cominciai a togliere le scarpe. Non posso dire di aver sentito qualcuno o qualcosa avvicinarsi. La mia fu più una percezione dovuta all’accapponarsi della pelle sulle braccia e i brividi gelidi dietro la nuca. Alzai di colpo la testa e fissai un punto buio del bosco. Non si sentiva nulla, non si vedeva niente, ma io percepivo che c’era una presenza che mi osservava.
Dopo qualche istante in cui il mio cuore aveva smesso di battere, sembrò che le sistole e i ventricoli del mio organo vitale pompassero tutti e quattro insieme e rischiai seriamente un infarto per lo spavento. Un bambino di dieci o dodici anni, vestito miseramente e con le guance scarne come chi fosse denutrito da mesi, si avvicinò timorosamente a me, balbettando parole senza senso. Essere coraggiosi non basta per non avere paura dell’ignoto. E quel bambino mi diede l’impressione di un essere dell’oltretomba. Si fermò a pochi metri da me e mi fissò sempre emettendo degli strani suoni che non riuscivo a comprendere. Il suo viso smunto, i suoi gracili arti e l’aspetto miserando, ebbero l’effetto di farmi dimenticare il panico di poco prima e provare invece una morsa di pietà verso quel povero cucciolo di uomo.
Non riuscivo a capire cosa dicesse con la sua flebile vocina, ripeteva come una nenia la parola “ponizej” e intanto mi faceva segno verso la roccia ove avevo poggiato la giacca. Scossi più volte la testa dicendo in varie lingue che non lo capivo. Allungai la mano per cercare di carezzare quel viso cereo, ma lui si ritrasse e mi guardo in un modo così triste che dai miei occhi incominciarono a fuoriuscire copiose lacrime. Si voltò e svanì nel buio del bosco.
Mi ci volle un quarto d’ora per riprendermi da quello strano incontro. La pelle delle braccia avrebbe fatto la concorrenza con la pelle di un’oca. Anche attraverso la camicia la sentivo accapponarsi sempre di più. Scrollando con forza la testa mi destai da quel malinconico torpore e mi alzai con l’intento di arrampicarmi sul primo albero, ma non ce ne fu bisogno poiché una luce si accese oltre gli alberi e io potei seguirla con facilità. Era l’insegna di una locanda, dove entrai e chiesi prima di tutto un bicchiere di vodka per riscaldarmi.
Il locandiere parlava un buon inglese, ed io, con il mio scarso inglese scolastico riuscii a spiegargli che cercavo un meccanico che mi riparasse l’auto o perlomeno la togliesse dalla carreggiata.
L’uomo fece una lunga telefonata e mi disse che il tempo di riscaldarmi e sarebbe giunto il carro attrezzi. Sedetti distrutto su una sedia posta vicino ad una grossa stufa a legna e cercai di asciugarmi per riprendere quanto prima il viaggio. Se avessi fatto a tempo sarei anche potuto andare in qualche negozio di Katowice per comprarmi degli abiti e presentarmi in modo decente all’appuntamento.
Sulla parete di fronte a me c’era una mensola con alcune foto in bianco e nero. Erano foto che avevo già visto durante i vari documentari televisivi che trattavano dei campi di concentramento nazisti. Mi venne in mente che quella era una zona dove c’era il più tristemente famoso lager della Seconda guerra mondiale e chiesi al locandiere:
«È qui vicino Auschwitz?»
«Siamo ad Auschwitz! Il nome in polacco è appunto Oswiecim. Auschwitz non è altro che la traduzione in tedesco. Anche i nomi ci cambiarono in quel periodo.»
«Purtroppo ci furono tante assurdità commesse durante quell’inutile guerra, ma le due che ritengo pazzesche furono proprio i campi di sterminio e i bombardamenti indiscriminati da ambo le parti alle città, con la volontà di uccidere anche civili, oltre ai soldati.»
«Vero anche questo.» annuì il vecchio. «Ma niente a confronto dello scempio dei campi di concentramento, dove gli ebrei, gli zigani e gli omosessuali avevano il diritto di vivere qualche giorno e noi polacchi qualche mese.»
«Se la presero anche con voi polacchi?» chiesi vergognandomi un po’ dell’ignoranza in materia. Le poche cose studiate a scuola erano finite da tempo nel dimenticatoio a causa del ritmo vorticoso della vita.
«Quello che nessuno mai precisa è che lo scopo di Hitler e della sua cricca di criminali non era solo di sterminare gli ebrei, ma anche di allargare i confini della Germania per dare più spazio al popolo tedesco. Per fare ciò non doveva solo occupare dei territori nuovi, ma doveva anche svuotarli dai suoi precedenti abitanti. Ci fu una precisa volontà di cercare il più piccolo pretesto per annientare villaggi interi e deportare a masse gli abitanti delle città nei campi di lavoro, dove avrebbero lavorato fino alla morte. Mio padre, professore di filosofia all’università di Cracovia, è stato tre anni nel campo di concentramento Auschwitz uno, quando era appena un ragazzo. Vide morire in un vagone ferroviario in disuso, trasformato in camera a gas, la madre e il padre tenendo per mano il fratello più piccolo di dodici anni.
Chiunque si muoveva o parlasse dalla fila di parenti costretti ad assistere al macabro spettacolo veniva fucilato all’istante dagli Einsatzkommandos, soldati appartenenti ad un gruppo speciale addetto ai prigionieri nei campi di sterminio per evitare che i soldati di leva, avendo orrore delle atrocità che commettevano i loro connazionali, potessero disertare o peggio ancora ammutinarsi contro i loro comandanti.
Il piccolo Jozef non sopportò più di ascoltare le grida che provenivano dal carro bestiame e si liberò dalla stretta del fratello, scappando verso un bosco poco vicino. Subito due di quegli animali in divisa lo rincorsero nel bosco. Si sentirono alcuni colpi di pistola e niente più. Dopo qualche minuto i due ritornarono ridendo e fumando una sigaretta. Si fermarono davanti al più alto ufficiale presente e dissero che il fuggitivo era stato abbattuto, venendo elogiati dal SS-Gruppenfurer, in visita da qualche giorno in quel campo, che si complimentò con loro quasi avessero ottenuto una grande vittoria su un drappello di soldati nemici.»
Mentre l’uomo mi raccontava questa triste storia, un vecchietto più ossa che carne era uscito da una porta laterale e ci ascoltava piangendo sommessamente.
«È mio padre!» mi disse il locandiere. «Da quando i russi lo liberarono nel ’45 non si è mai ripreso completamente, e spesso se ne va in giro con una vecchia foto del fratello, maledicendosi per non aver avuto la forza di stringere più forte la sua mano. Si fa una colpa di quello che è accaduto e dice che non avrà mai pace se non troverà il corpo del fratellino per regalargli almeno una sepoltura da cristiano. È stato questo il motivo principale che lo ha spinto a ritornare a stabilirsi qui. Dall’altro lato del bosco c’erano i capannoni dove dormivano i prigionieri, che adesso sono diventati patrimonio dell’umanità.»
Il locandiere si avvicinò alla parete opposta e prese una vecchia cornice da farmi vedere.
«Ecco mio padre con mio zio Jozef nel 1941. Quelle bestie lo hanno ucciso e lasciato a marcire senza sepoltura a soli dodici anni.»
La pelle d’oca ritornò di nuovo e sentii i brividi partire a razzo dalla nuca alla schiena. La vecchia foto ritraeva due bambini di cui uno era lo sventurato che avevo incontrato nel bosco. Non c’erano dubbi! Era lui, anche se il piccolo che avevo incontrato io aveva lo sguardo perennemente fisso nel vuoto e il viso infossato a causa della denutrizione.
«Cosa significa la parola ponizej?» chiesi tutto tremante, non riuscendo a distogliere lo sguardo dalla vecchia immagine. Qualcosa di arcaico e misterioso mi attraeva e mi spingeva in direzione del bosco.
«Sotto! Oppure si usa al posto della frase “Qua sotto”»
Raccontai con gli occhi umidi dell’incontro avuto qualche ora prima nel bosco di betulle e della misteriosa apparizione. Il vecchio si mise le mani in faccia e incominciò a piangere come un bambino. Si rivolse a me in polacco, subito tradotto dal figlio anch’essi in lacrime.
«Per favore, Wloski, ci porti dove ha avuto l’apparizione. È stato un segno del Cielo!»
Presi la mia giacca e mi diressi verso il boschetto, seguito dal locandiere che sorreggeva il vecchio genitore. Non fu difficile raggiungere la piccola radura ove c’era la roccia poiché l’insegna della locanda per uno strano caso creava un raggio fra gli alberi che mi guidò per magia fino ad essa. Feci segno al locandiere che il bambino dell’apparizione mi indicava proprio quella roccia, e l’uomo, fatto sedere il padre sul tronco che avevo utilizzato io in precedenza, liberò la pietra dalle erbacce e dalle foglie.
Scavò solo pochi centimetri e spuntò un oggetto bianco che nonostante il buio identificammo subito come ossa umane. Delicatamente liberò quello che vedemmo subito si trattava del braccio di un piccolo scheletro. Jozef avrebbe finalmente avuto una tomba sotto cui riposare e dove i parenti potevano porgere un fiore. La sua posizione era stata nascosta da quella pietra per più di cinquanta anni, e solo il caso o chissà cos’altro aveva fatto sì che io poggiassi la mia giacca proprio su quella sporgenza.
Dell’apparizione non ne ho mai voluto parlare a nessuno per il timore di essere preso per un visionario. Solo io so il tormento che ho provato le settimane successive. In ogni momento del giorno e della notte ebbi impresso davanti a me lo sguardo triste di quel bambino, così intenso e magnetico da farmi provare sulla pelle una parte del dolore che aveva patito. Ci si poteva leggere tutto l’orrore che poteva provare un bambino di dodici anni, vedendo i suoi genitori camminare lenti, insieme a tanti altri compagni di sventura, ed entrare in un carro bestiame consapevoli di andare incontro ad una crudele morte, ma incapaci di reagire a tale sorte.
In una mia visione vidi – o immaginai di vedere - la madre di Jozef che veniva protetta dal marito nel vano tentativo di sottrarre la donna alla furia delle guardie, ma lei, indifferente ai calci dei fucili che le percuotevano la schiena, guardava immobile i due figli, con le gambe, il cuore e l’anima che rifiutavano di muoversi. La sua paura era che se fosse corsa verso i suoi piccoli quegli spietati aguzzini avrebbero preteso che anche i due bambini dovevano seguire i genitori. Sperava quindi di trasmettere loro tutto il suo amore con l’intensità del suo sguardo. E intanto chiedeva a Dio per quale motivo permetteva a degli uomini di far assistere a due bambini alla crudele morte dei genitori.
Poi una notte, qualche giorno dopo che il locandiere mi aveva telefonato e raccontato del funerale postumo che avevano voluto fare ai resti del piccolo fratello del padre, sognai lo stesso bambino venirmi incontro. I vestiti erano quelli laceri con cui l’avevo visto la prima volta, ma la differenza era dovuta ad una luce abbagliante negli occhi che rendeva il suo viso bellissimo.
Alzò la mano e mi salutò con un sorriso, prima di svanire per sempre.
Avevo visto un angelo!

martedì 25 maggio 2010

IL MISERABILE


IL MISERABILE
L’odore di disinfettante dava allo stomaco. Per un uomo nato e vissuto in aperta campagna, come Mario Verza, l’aria viziata della corsia dell’anonimo ospedale faceva provare dei capogiri. Con lo sguardo cercò inutilmente di trovare una finestra aperta con l’intenzione di avvicinarsi ad essa e inalare una boccata d’aria. Ma per timidezza evitò di alzarsi dallo stretto e duro sedile di plastica ove lo aveva fatto accomodare l’infermiere del Pronto Soccorso, trattandolo con scortesia a causa dei vestiti sporchi e consunti propri di chi si fosse recato con urgenza in ospedale venendo direttamente dai campi. Preferì stare a capo chino con la vecchia berretta fra le mani inspessite dai calli, facendo finta di non notare gli sguardi disgustati o ironici della gente che aspettava nella piccola sala d’attesa.
In silenzio ripeteva una commossa invocazione, sperando che l’esito di quell’estenuante attesa non fosse come quello di pochi anni prima, quando aveva condotto in un altro ospedale il suo povero figlioletto, morto dopo un po’ per problemi respiratori a soli dodici anni d’età.
Quella mattina si era alzato all’alba come ogni giorno e si era recato nel piccolo podere avuto in eredità dai genitori, dove lui e la moglie Adelina ricavavano gli ortaggi che portavano al mercato e con cui andavano avanti tra stenti e privazioni, quando Beppe, il suo vicino di casa, era corso fin giù alla vallata per dirgli che Adelina stava male e urlava per un forte dolore al basso addome.
Erano alcuni giorni che la donna aveva la febbre e non se l’era sentita di portarla con lui a lavorare nei campi. Il medico generico le aveva prescritto degli antipiretici senza neanche visitarla, dicendo che erano sintomi di stagione e sarebbero passati in pochi giorni. Lasciò il vecchio motorino e salì in fretta e furia nell’auto di Beppe, arrivando pochi minuti dopo dalla moglie, pallida come un cadavere, che si dimenava sul pavimento, contorcendosi dal dolore. Vedendo arrivare i due uomini, per un istintivo pudore, Adelina cercò di coprirsi l’addome, spiegando al marito che appena le era cominciato il ciclo mestruale aveva avvertito delle fitte lancinanti al basso ventre e il sangue usciva copioso e inarrestabile.
Lo sconvolto Mario la strinse a sé fra le braccia divenute d’acciaio per il troppo lavoro e pregò il vicino di accompagnarlo al primo ospedale. Ed era nella sala d’attesa di quello stesso ospedale che era seduto, impacciato e incapace di rivolgere la parola a chicchessia, fissando la porta che si era chiusa molte ore prima dietro la barella ove avevano sdraiato la sofferente Adelina.
Si era fatta sera quando alcuni medici uscirono parlottando fra loro e si avvidero del contadino seduto sul piccolo sedile attaccato al muro. La timidezza impediva a Mario di chiedere informazioni, e sperò che almeno questo gruppetto di medici e infermieri gli dicesse cosa fosse successo alla sua amata Adele.
Forse fu il suo sguardo supplichevole ed eloquente, o chissà, una sensibilità da parte di uno dei medici, che fece fermare il dottore a pochi passi dall’uomo seduto e gli chiese chi attendeva.
«Stamattina ho portato mia moglie, Adele Ruocco, con una forte emorragia. Sa qualcosa sul suo stato di salute, dottore?»
«Ma come!» urlò il chirurgo. «È da prima di pranzo che la signora Ruocco è stata ricoverata in ginecologia e nessuno si è preoccupato di avvisare il marito?»
«Non sapevamo che ci fossero parenti in attesa in Pronto Soccorso e la signora a causa del suo attuale stato di confusione non ci ha detto nulla.» tentò di giustificarsi uno degli infermieri.
«Ormai è fatta!» aggiunse il medico alzando le spalle. «Venga con me al piano di sopra signor Verza, le spiego come stanno le cose.
Vergognandosi per le tracce di terra che lasciavano i suoi scarponi da contadino, che provocavano non pochi risolini ironici fra gli addetti ai lavori e i parenti dei pazienti, Mario seguì l’uomo in camice verde fin dentro un piccolo studio ricolmo di cartelle cliniche e schede mediche. Fatto accomodare l’impacciato fattore, il professionista - che si era presentato come il professore Alfonso Rega - prese una cartella al cui frontespizio era postato il nome della donna ricoverata e chiese varie informazioni al marito.
«Mi sta dicendo che lei e sua moglie abitate in un paesotto in aperta campagna, ma sa se in passato la signora Adele sia vissuta in qualche grosso centro industrializzato, oppure abbia lavorato in qualche industria chimica, metallurgica o siderurgica?»
«Conosco mia moglie da quando è nata, dottore!» asserì Mario. «Da ragazza aiutava i suoi genitori nell’orto che confinava con il mio e appena maggiorenni ci siamo sposati. Eccetto un paio di brevi viaggi, non ci siamo mai spostati dal nostro paese natio e abbiamo sempre lavorato nei campi poco distanti dalla nostra casa, dove lavoriamo tuttora.»
«Avete figli?»
«Ne era sopravvissuto solo uno ai tanti aborti spontanei che ha subito mia moglie, ma il nostro adorato Roberto è morto tre anni fa per problemi respiratori.»
«Ha delle cartelle cliniche di suo figlio?»
«Io non ho niente. Magari ce l’ha il nostro medico curante che ha seguito la malattia di mio figlio da quando è nato fino alla sua tragica fine.»
«Va bene così per adesso, signor Verza. Queste informazioni mi servono per capire qualcosa di più della patologia di sua moglie.»
«Ma cosa è successo a mia moglie?»
«Questo glielo saprò dire dopo che avremo realizzato una laparoscopia; per adesso dai sintomi non mi sento di escludere che sua moglie sia affetta da endometriosi. Una forte infiammazione all’utero. Per realizzare questo esame bisogna sottoporre la paziente ad anestesia totale, per questo le chiedo di firmare questa liberatoria per tutelare l’ospedale da qualche effetto collaterale posteriore l’anestesia.»
«Madonna benedetta! Povera moglie mia. Cosa posso fare dottore?»
«Per adesso ben poco. Al massimo può andare dal suo medico curante e farsi dare tutta la documentazione che ha raccolto su sua moglie nel corso degli anni. Ho bisogno di tutti gli elementi per fare una giusta anamnesi di questo caso.»
Detto ciò, il bravo medico si alzò e porse la mano al contadino che gliela strinse con delicatezza per paura che la sua dura mano potesse ferire quella curata del dottore. Andò quindi al capezzale della moglie, posta su un letto di una camera con molte altre pazienti, e la trovò ancora debilitata per la grossa perdita di sangue e instupidita dai forti antidolorifici.
Si strinsero la mano e piansero in silenzio per non farsi sentire dagli altri pazienti e dai loro parenti, non accorgendosi che il chirurgo li stava osservando dal fondo del corridoio.
«Cosa pensi?» gli chiese il suo amico e collega, seguendo lo sguardo dell’altro e fissando anch’egli i due fattori.
«Ai sintomi di quella povera donna. Se non sapessi per bocca del marito che lei ha vissuto tutta la vita in un ambiente incontaminato, avrei diagnosticato che lei sia stata a contatto diretto con inquinanti organici persistenti.»
«I pop? E dove vuoi che abbia inalato o ingerito delle diossine? La mia famiglia è natia di un paese vicino a dove risiedono quei due, e anch’io, come tanti nostri concittadini, mi reco spesso in quella zona dell’entroterra per comprare frutta, verdura e prodotti caseari sani e naturali.»
«È questa la mia preoccupazione!» disse Rega annuendo. «Se il mio sospetto che la patologia della donna è dovuta ad agenti carcinogeni come il Pcdd oppure il Tcdd, non ha avuto possibilità di assorbirli in altri luoghi se non nel luogo in cui è sempre vissuta. Domani voglio parlare con il mio amico oncologo e chiedere al marito della donna di fare delle analisi anch’egli. Voglio togliermi questo dannato tarlo dalla testa.»
Mario per più di una settimana si divise fra il campo la mattina e il capezzale della moglie al pomeriggio. La donna non tendeva a migliorare nonostante con la fine del ciclo mestruale fosse diminuita anche la febbre. Nessuno si prendeva la briga di dargli spiegazioni sul protrarsi della decenza della moglie, e il solo dottor Rega di tanto in tanto si faceva vedere e cercava di rassicurarlo senza però chiarirgli la situazione. Anzi chiedendo lui al fattore se avesse avuto le cartelle cliniche dal medico curante e se si fosse fatto le analisi del sangue e delle urine come gli aveva consigliato.
Ma l’umiltà con cui Mario chiedeva i documenti al suo medico di famiglia, e la sua innata riverenza verso qualsiasi “colletto bianco” non avevano portato a nessun risultato e l’uomo gli aveva anche risposto in malo modo quando il timido contadino aveva reiterato le sue richieste.
«Ma quale cartella clinica vuoi?» rispose l’attempato dottore di paese che si preoccupava più della sua carriera di politico locale che non della salvaguardia dei suoi pazienti. «Tuo figlio aveva problemi di asma bronchiale da quando era nato e questo lo ha portato alla tomba. Devo avere in giro da qualche parte l’attestato di morte che ho redatto quando mi chiamarono all’ospedale per confermare la diagnosi del mio amico primario e constatarne il decesso per cause naturali. In quanto a te non hai sintomi che giustificano la richiesta di tali analisi. Questi pivelli di medici ospedalieri credono che i soldi della sanità pubblica possono essere buttati così impunemente?»
Quello che sia il medico di paese che il modesto lavoratore della terra non sapevano era che il benvoluto professore Rega aveva mobilitato un suo caro amico appartenente ad un gruppo di agguerriti ambientalisti, che si stava industriando per monitorare la zona ove era situato il podere di Mario.
Dopo qualche settimana, da analisi condotte con la gascromatografia eseguita su alcuni campioni, l’equipe di difensori del territorio avevano scoperto che quella zona aveva una tossicità equivalente così alta da collocare quei terreni fra quelli interdetti alle attività umane. Presero alcuni campioni di acqua, ortaggi e latte delle pecore che pascolavano poco lontano e scoprirono che tutti i campioni erano contaminati con varie sostanze chimiche, e in modo maggiore da congeneri di idrocarburi aromatici policlorurati chiamati PCB diossina-simili.
La lontananza di quei luoghi da ogni centro industriale e la sua posizione poco ventilata, fece intuire immediatamente a Rega e agli ecologisti che la causa della presenza di diossine nella zona era dovuta all’interramento di fanghi tossici o all’inquinamento della falda freatica con cui i contadini della vallata irrigavano i campi. Non restò a loro altro da fare che mobilitare la Procura competente che aprì un’inchiesta per scoprire chi avesse commesso tale vile e spietato reato.
Ma il tutto venne presto insabbiato poiché il giudice competente non ritenne validi gli elementi ricavati dal gruppo di ecologisti e mobilitò dei periti di sua fiducia per fare delle controanalisi che non evidenziarono l’alta tossicità dei primi esami.
Rega non fu per nulla felice di quell’esito e si mobilitò in prima persona recandosi dal magistrato. I test fatti su Adele Ruocco erano fin troppo chiari ed evidenziavano varie patologie causate dall’assimilazione di cibi e bevande contaminate che avrebbero portato la donna alla morte nel giro di pochi anni. I sospetti del valido professionista erano che il figlio della coppia non fosse morto a causa dell’asma ma per un cancro ai polmoni o alla laringe. Come sospettava che lo stesso Mario avesse qualche tumore alla prostata o alla vescica, in base alle risposte che il contadino gli aveva dato inerenti alle domande fatte sul suo stato di salute generale.
Il magistrato lo ascoltò con il volto apparentemente attento ma con lo sguardo perduto in chissà quale lontano pensiero. Se Rega non fosse stato un esperto conoscitore dell’animo umano avrebbe potuto credere che il profumatamente retribuito difensore delle norme giudiziarie fosse interessato a ciò che gli stava esponendo con tanto fervore e con tanta completa ed esaustiva documentazione. Quello che ebbe però fu solo un vago cenno di assenso e una promessa di agire fatta a denti stretti e con gli occhi abbassati sui fogli. Come chi non ha la forza di guardare il suo interlocutore negli occhi.
Deluso dal disinteresse neppure troppo nascosto dell’uomo, Rega tornò nella sua auto e prese un’altra copia del dossier Ruocco. Guardò assorto i pochi fogli, che in quel momento gli sembrarono più pesanti di un macigno, e si diresse da Angelo, il suo amico ecologista, nella sede della piccola associazione ONLUS che dirigeva. Dopo aver raccontato all’altro di come era stato trattato freddamente da giudici e procuratori, l’amico gli consigliò di prendere il dossier e recarsi insieme a lui nella stazione cittadina dei Carabinieri per presentare una regolare denuncia contro ignoti per danno ambientale. In quel modo, se avessero trovato nuovi elementi avrebbero potuto allertare i militari che a loro volta potevano fare delle indagini ufficiali da presentare al prefetto.
Il maresciallo, comandante della caserma, ascoltò i due e sfogliò con una velocità degna di un recordman il fascicolo. Quando ebbero finito di esporre la loro versione dei fatti disse con un tono dispregiativo:
«Questo Mario Verza è solo un miserabile contadino, e magari la malattia della moglie è dovuta alla mancanza di igiene.»
«Per niente, maresciallo. Queste patologie sono derivate da esposizione o ingerimento di sostanze contaminate provenienti da industrie metallurgiche o siderurgiche che in questa zona non esistono e sono da ricercarsi nelle regioni più industrializzate del nostro Paese. Le analisi fatte dal signore qui presente con i mezzi forniti dalla sua associazione, sono molto eloquenti.»
«Come lo sono quelle fatte dai periti incaricati dal giudice competente.» ribatté il militare. «Tra le due tesi io credo in modo assoluto a quella ufficiale e non la prima fatta da privati.» soggiunse alzandosi e decretando con quel gesto la fine dell’incontro.
«Ma almeno possiamo fare delle analisi nei dintorni della discarica poco lontana?» aggiunse Angelo. «Si trova in una proprietà privata vigilata giorno e notte e ci servirebbe un permesso per analizzare le acque nei dintorni per capire se il percolato abbia contaminato qualche pozza collegata ad un’eventuale falda freatica che passa sotto la vallata.»
«Conosco personalmente l’imprenditore titolare di quell’azienda e vi posso garantire che è una persona di assoluta fiducia. Quando è stato scelto quel sito per realizzare la discarica e il centro di stoccaggio per rsu, una quindicina di anni fa, abbiamo fatto parte della commissione di vigilanza anche io e il dottore Rastelli, il medico di fiducia della famiglia Verza. Il nostro compito era di osservare che tutto fosse fatto come prescritto dall’ente appaltante, e le ditte che hanno eseguito i lavori hanno stilarono un resoconto completo delle varie opere realizzate che ho depositato personalmente presso gli uffici dell’Autorità di vigilanza regionale. Vi garantisco che tutta la zona è tuttora sicura e la causa della malattia di questa donna è da riscontrare nel modo di vivere malsano di quella famiglia e non alla discarica.»
Non avendo più nulla da dire a quell’uomo che palesava con arroganza le proprie convinzioni, i due uscirono e si recarono sfiduciati in un bar per pensare con calma alla prossima mossa da fare. Angelo convinse Rega di andare da Mario e metterlo a conoscenza di ciò che avevano scoperto. Era lui che presto avrebbe perduto la moglie e che probabilmente per la stessa causa aveva visto morire il figlio, quindi era giusto che fosse lui a decidere chi denunciare.
Lo trovarono a lavorare nel suo campo. Stava seminando il trifoglio e i lupini per operare il sovescio, con cui di tanto in tanto fertilizzava i suoi campi, usando i metodi tradizionali insegnatigli dai nonni, preferiti da lui alla concimazione chimica senza regole usata dagli altri contadini.
Non sapeva neppure perché si facesse quel tipo di lavorazione dura e faticosa, e fu contento quando Angelo gli spiegò che con il suo metodo tradizionale avrebbe avuto delle piante più forti e contenenti tutti i minerali come l’azoto nitrico. Mentre con l’uso quasi assoluto di fertilizzanti chimici, la differenza fra radici e piante non avrebbe consentito alle piante di nutrirsi di tutte le proprietà del suolo e sarebbero state molto più esposte ad attacchi da parte di funghi, muffe e parassiti, costringendo gli agricoltori a usare fitofarmaci e pesticidi.
Il contadino lo ascoltò con attenzione, e annuì quando l’ambientalista gli chiese se irrigasse con il pozzo artesiano con cui irrigavano anche gli altri contadini della vallata.
«Mario, è inutile una coltura biologica come la tua se l’acqua e l’aria sono inquinate. Tu mi dici che nel tuo campo usi come concime solo composti organici ricavati dai fanghi decontaminati della vicina discarica, ma se qualcuno ti inquina l’acqua con cui irrighi la tua insalata, oppure non ti fornisce concime organico completamente decontaminato da diossine, i prodotti che ricaverai dal tuo orto non saranno diversi da altri che sono stati coltivati in un suolo inquinato.»
Spiegarono tutta la faccenda che avevano supposto al povero uomo che ascoltava con le lacrime agli occhi. Sapere che la moglie avesse pochi anni di vita e che probabilmente anche lui avesse il cancro a causa di qualcuno che desiderava arricchirsi di più e di qualcun altro che doveva controllare e non aveva controllato, lo annientò. A quella spietata gente non era bastato far ammalare o morire i suoi cari, e se l’erano presa pure con quel campo che era tutto ciò che possedeva. Tutto il suo mondo era la sua famiglia e il suo piccolo podere e glielo avevano distrutto.
«Cosa posso fare?» chiese con un sussurro che sembrò un lamento. «Io sono solo un piccolo contadino ritenuto da tutti un miserabile!»
«Per adesso niente!» gli rispose Rega. «Ma verrà un giorno in cui anche un miserabile farà sentire la sua voce. Spero che questo avvenga pacificamente e non con il ritorno delle sanguinose rivolte di classe. Altrimenti per l’uomo non ci sarà più un domani e si estinguerà a causa della sua stessa demenzialità.»

mercoledì 19 maggio 2010

Figli del vento (tratta dalla raccolta La mia strada aveva l'orizzonte come limite di klem d'avino)


FIGLI DEL VENTO


Gelidi muri anneriti dal fumo
ascoltano immobili il tacito lamento
dei figli del vento.

Figli che per l’impeto di un momento
bruciano nel fuoco dell’eterno sgomento
e timidi celano al mondo le loro lacrime
lasciandole annegare nel vuoto di questo silenzio.

Il mare di carta non ha odore
e l’illusione non basta a dargli calore.
Guardo il cielo, prigioniero del tempo
e vedo i miei sogni svanire per sempre
sconfitti dalla cruda realtà di questa vita incolore
che ogni giorno perde un po’ del suo valore…