lunedì 31 maggio 2010

AUSCHWITZ


AUSCHWITZ
(Terza pagina di un diario bagnato dalle lacrime)
Il cielo era immerso in un pallido grigiore e rendeva tutto il paesaggio dello stesso colore. La pioggia incominciò a cadere fitta e sottile, accompagnandomi con il suo monotono martellio per tutto il viaggio da Brno al confine ceco-polacco di Cesky Tesin.
Data l’ora tarda e il tempo inclemente decisi di fermarmi a dormire sul versante ceco e oltrepassare il confine solo al mattino dopo. Pernottai in un accogliente albergo, che mi ricordava moltissimo le tranquille locande delle province austriache e gustai un buonissimo gulasch, cercando di rilassarmi il più possibile per affrontare con tutta la mia efficienza psicofisica l’importante riunione di lavoro che si sarebbe tenuta a Katowice.
Dopo una truffa che avevo subito un paio di anni prima, ero stato costretto a dichiarare fallita la mia agenzia di fotografie e pubblicità e da più di un anno ero responsabile agli acquisti della multinazionale Lucres s.p.a. con sede in Repubblica ceca e con succursali in tutta Europa. Nonostante non amassi essere comandato da nessuno, se avessi voluta riaprirne un’altra agenzia avrei avuto un bisogno vitale del lauto stipendio che mi versavano alla Lucres.
Fino al disastroso crac economico, il lavoro di fotografo mi stava dando molte soddisfazioni. Le più belle modelle fra quelle ancora non famose e gli aspiranti modelli e indossatori venivano da me numerosi per degli stage o per fare i book fotografici poiché ero uno dei pochi del settore a trattarli come persone e non come carne da macello da utilizzare a proprio piacimento.
Ai più promettenti proponevo un contratto da semiprofessionista per due anni, con la garanzia di farli partecipare ad almeno sei servizi pubblicitari o modellistici. Loro avrebbero percepito uno stipendio fisso e in cambio cedevano all’agenzia il 24 per cento dell’importo al netto delle spese per ogni ulteriore servizio non previsto dal contratto. In quel modo se una grossa agenzia voleva farli partecipare a qualche loro campagna pubblicitaria, non venivo abbandonato su due piedi e avevo anch’io la mia parte di guadagno.
Ciò capitava rarissime volte. Solo uno su tanti riusciva a sfondare in quel mondo. Il più delle volte ero io che dovevo industriarmi per procurare loro i servizi stabiliti dal contratto e recuperare con essi lo stipendio che anticipavo. Ma a causa delle mie vicissitudini bancarie ero stato costretto a mettere da parte le difficoltà di fotografo di moda e pubblicità e in quel momento la preoccupazione era per la mia posizione in seno alla grossa società, poiché il ruolo di responsabile agli acquisti era appetito da tanti, e già per due volte in pochi mesi durante il consiglio di amministrazione era stata messa ai voti la proposta di sostituirmi. Se l’affare di cui mi stavo occupando in quei giorni fosse andato male, neppure essere amico del proprietario del pacchetto di maggioranza della Lucres sarebbe bastato a conservarmi il posto.
Riflettei sullo strano caso che mi aveva portato a conoscere il fondatore di quella società commerciale che si occupava di moda, di ristorazione e di quant’altro poteva essere economicamente vantaggioso. Roberto Leoni, era un imprenditore di origini campane partito da zero con un ristorante senza troppe pretese. Dopo una ventina di anni, però, grazie alle sue immense capacità manageriali, possedeva il pacchetto di maggioranza della Lucres, una società che tramite le tante succursali gestiva una quindicina di negozi di abbigliamento griffato, una ventina di bar e ancor più aree di servizio intorno ad altrettanti ristoranti, dove si riforniva i clienti di tutto: dal carburante all’abbigliamento.
Per volere dello stesso proprietario, tutti i punti di vendita dovevano proporre gli stessi prodotti, acquisiti dalla Lucres in esclusiva e con impresso il nome della società. Così si poteva controllare meglio la contraffazione e si era a conoscenza che qualsiasi articolo visto in giro con quel logo doveva per forza di cose essere stato acquistato presso la nostra catena.
Saputo da alcuni amici in comune che eravamo nativi della stessa zona, Roberto mi contattò personalmente e volle complimentarsi con me per la discreta fama acquistata in poco tempo grazie al mio lavoro. Mi propose di occuparmi dell’organizzazione di alcune sfilate di moda nei suoi migliori locali e interessarmi alla preparazione di un nuovo logo per la Lucres. Dopo pochi incontri eravamo già sul buon punto di diventare amici e incominciamo a vederci non solo per motivi di lavoro ma anche per diletto.
Nonostante con il mio animo di socialista utopico spesso ero in contrasto con Roberto, ascoltando i concetti che aveva della vita, grazie alla sincerità con cui ci parlavamo imparai molto sia sugli uomini di potere che sul loro mondo.
«Roberto, spiegami questo, allora.» gli chiesi dopo un ragionamento che non mi aveva trovato per niente d’accordo. «Perché continui a lavorare per più di dieci ore al giorno, con tutto lo stress che ti creano queste tue innumerevoli attività, e non vendi tutto? Con i soldi che hai e con quelli che ricaveresti dalla cessione delle tue azioni della Lucres, vivresti da nababbo per dieci vite umane.»
«Hai ragione, Klem, sarei ricco e potrei permettermi tutto, ma non sarei altro che un uomo benestante di cui tutti vorrebbero approfittare per spogliarlo delle proprie ricchezze. Non avrei il potere che ho adesso. Nessuno più penderà dalle mie labbra quando io apro la bocca anche solo per starnutire. Nessuno più avrà timore di dire o fare qualcosa che potrebbe non garbarmi. Nessuno più verrà da me per implorarmi di assumerlo o di non licenziarlo. Questa supremazia sociale sugli altri è una droga che non ha prezzo. E chi l’ha assaporata non sa farne più a meno.»
«Ma tu rischi ogni giorno l’infarto. Ti rendi conto che perderesti ugualmente tutto se lo stress da super lavoro ti causasse un danno fisico del genere?»
«Poco importa! L’importante è essere il numero uno fino a quando sarà possibile. Sei giovane e sei un idealista. Non potrai mai capirmi fino in fondo su questo.»
Ed erano tante le cose che non condividevo, ma ci univa un profondo e reciproco rispetto, e quando mi crollò il mondo addosso, economicamente parlando, per alcune mie valutazione azzardate, Roberto mi invitò a prendere il posto lasciato libero da un dirigente dimissionario. Dovevo occuparmi di regolare e controllare gli acquisti di tutti i punti venditi di una zona molto vasta, in collaborazione con il responsabile alle vendite, e fare un resoconto settimanale personalmente a Roberto.
Sfruttai quel ruolo di responsabilità portando le mie idee di vita sul lavoro e non come gli altri che si plagiavano e si facevano influenzare dall’ambiente che trovavano. Insieme a tanti prodotti di benessere, inserii anche prodotti a largo uso commerciale che favorivano i clienti meno abbienti e non facevano la concorrenza ai piccoli negozi, come da sempre chiedevano in consiglio di amministrazione, indifferenti di creare danni agli altri con la scusa che in commercio tutto era lecito.
Il mio ultimo progetto era appunto di tipo sociale. Mi ero accordato con una fabbrica di cioccolato austriaca che avrebbe prodotto in esclusiva per noi un tipo di cioccolatino molto amato dai bambini. La mia idea era di farne dei piccoli zaini di stoffa pieni di quella prelibatezza e metterli sulle spalle a dei peluche di qualità che produceva una ditta di Katowice.
Il prezzo doveva essere quasi politico per far sì che i genitori di tutti i ceti sociali potessero regalare ai figli qualcosa di buono insieme a qualcosa di bello. Ma dopo il primo iniziale successo del mio “Sweet plush” i polacchi avevano giocato a rialzo e, nonostante avessimo noi della Lucres il marchio registrato, prima di togliere a quella famosa ditta la possibilità di fabbricare i pupazzi, volevo sentire le loro pretese. Se non ci fossimo messi d’accordo io avrei dovuto concludere il contratto con loro a favore di un’altra fabbrica, ma loro potevano benissimo sfruttare la scia di successo della prima ondata di peluche facendosi pubblicità con la dichiarazione di essere i fabbricanti e lanciare un prodotto quasi simile.
Se fosse successo, dato che gli imprenditori di Katowice erano stati indicati da me, i miei denigratori avrebbero decretato la mia incapacità nello scegliere i collaboratori e fatto il possibile per togliermi il mandato e Roberto si sarebbe trovato fra due fuochi.
Con quello stato d’animo abbastanza preoccupato superai la dogana e mi immisi sulla statale 933 che mi avrebbe portato al bivio con Cracovia, e da lì grazie alla statale 934 sarei arrivato a Katowice, la capitale del Voivodato di Slesia, per l’ora di pranzo. Il tempo tendeva a peggiorare. Nonostante si fosse in primavera faceva freddo e la nebbia si univa all’umida foschia che saliva dai boschi, rendendo tutto il paesaggio grigio. Oltretutto la fitta pioggia non faceva vedere più lontano di pochi metri.
Sobbalzai di colpo a causa di un oggetto che avevo urtato sulla carreggiata, e solo grazie alla moderata velocità non finii fuori strada. Per evitare che le macchine provenienti alle mie spalle mi tamponassero, parcheggiai sul bordo della carreggiata tra scossoni tremendi dell’avantreno. Il danno era consistente. Un tronco, probabilmente caduto dal cassone di un camion, era al centro della carreggiata e si era ficcato sotto le ruote distruggendomi una ruota ed alcuni componenti meccanici della mia Volkswagen.
A spostarla senza un carro attrezzi era impensabile, quindi mi avvicinai al bordo della strada e cercai di attirare l’attenzione di qualche automobilista. Ero fradicio per la pioggia quando si fermò un piccolo furgone. Non conoscendo io il polacco né lui l’inglese, l’uomo riuscì a spiegarmi a gesti che oltre il campo alla nostra destra c’era un piccolo borgo dove c’era un’officina meccanica. Se avessi seguito la strada avrei impiegato molto di più che non attraversando la campagna.
Lo ringraziai e mi affrettai a raggiungere il meccanico per far togliere la mia auto dalla strada e farmi chiamare un taxi. Qualche minuto prima dell’impatto avevo visto che un cartello indicava la cittadina di Oswiecim a pochi chilometri, ero quindi a meno di un’ora da Katowice.
Dall’alto della strada sembrava che il borgo fosse vicino, invece a causa del suolo accidentato e fangoso dopo un’ora di marcia forzata non ero neppure a metà strada e dovevo percorrere ancora un boschetto di altissime betulle per raggiungere le case che si notavano attraverso la foschia.
Nel fitto del bosco la già scarsa luce svanì del tutto, e io riuscivo a distinguere appena i fusti degli alberi che mi si paravano davanti. La pioggia cadeva sempre più fitta e i brividi di freddo mi facevano perdere quel poco di lucidità che mi restava. Mi resi conto di aver perduto l’orientamento, e se non fossi stato attento avrei camminato in cerchio. Il rimedio dettato dalla logica era di salire su di un albero e fissarsi bene in mente la direzione da prendere, evitando poi di girare sempre nello stesso verso, ma alternando uno spostamento in una direzione con un altro verso il lato opposto se per caso il suolo accidentato o il bosco fitto mi avessero costretto ad una deviazione forzata.
Avevo bisogno di capire dove fosse quel borgo prima di continuare il cammino e smarrirmi. Un’altra ora sotto quella selva fradicia d’acqua e avrei rischiato di svenire per la mancanza di forze a causa dell’ipotermia. Ma con un vestito e delle scarpe eleganti non era per nulla facile arrampicarsi su un albero di venti metri dritto come uno minareto. Non avevo un ricambio di vestiti e per non rovinarla del tutto decisi di poggiare la giacca su una roccia sporgente. Sedetti su un tronco divelto e cominciai a togliere le scarpe. Non posso dire di aver sentito qualcuno o qualcosa avvicinarsi. La mia fu più una percezione dovuta all’accapponarsi della pelle sulle braccia e i brividi gelidi dietro la nuca. Alzai di colpo la testa e fissai un punto buio del bosco. Non si sentiva nulla, non si vedeva niente, ma io percepivo che c’era una presenza che mi osservava.
Dopo qualche istante in cui il mio cuore aveva smesso di battere, sembrò che le sistole e i ventricoli del mio organo vitale pompassero tutti e quattro insieme e rischiai seriamente un infarto per lo spavento. Un bambino di dieci o dodici anni, vestito miseramente e con le guance scarne come chi fosse denutrito da mesi, si avvicinò timorosamente a me, balbettando parole senza senso. Essere coraggiosi non basta per non avere paura dell’ignoto. E quel bambino mi diede l’impressione di un essere dell’oltretomba. Si fermò a pochi metri da me e mi fissò sempre emettendo degli strani suoni che non riuscivo a comprendere. Il suo viso smunto, i suoi gracili arti e l’aspetto miserando, ebbero l’effetto di farmi dimenticare il panico di poco prima e provare invece una morsa di pietà verso quel povero cucciolo di uomo.
Non riuscivo a capire cosa dicesse con la sua flebile vocina, ripeteva come una nenia la parola “ponizej” e intanto mi faceva segno verso la roccia ove avevo poggiato la giacca. Scossi più volte la testa dicendo in varie lingue che non lo capivo. Allungai la mano per cercare di carezzare quel viso cereo, ma lui si ritrasse e mi guardo in un modo così triste che dai miei occhi incominciarono a fuoriuscire copiose lacrime. Si voltò e svanì nel buio del bosco.
Mi ci volle un quarto d’ora per riprendermi da quello strano incontro. La pelle delle braccia avrebbe fatto la concorrenza con la pelle di un’oca. Anche attraverso la camicia la sentivo accapponarsi sempre di più. Scrollando con forza la testa mi destai da quel malinconico torpore e mi alzai con l’intento di arrampicarmi sul primo albero, ma non ce ne fu bisogno poiché una luce si accese oltre gli alberi e io potei seguirla con facilità. Era l’insegna di una locanda, dove entrai e chiesi prima di tutto un bicchiere di vodka per riscaldarmi.
Il locandiere parlava un buon inglese, ed io, con il mio scarso inglese scolastico riuscii a spiegargli che cercavo un meccanico che mi riparasse l’auto o perlomeno la togliesse dalla carreggiata.
L’uomo fece una lunga telefonata e mi disse che il tempo di riscaldarmi e sarebbe giunto il carro attrezzi. Sedetti distrutto su una sedia posta vicino ad una grossa stufa a legna e cercai di asciugarmi per riprendere quanto prima il viaggio. Se avessi fatto a tempo sarei anche potuto andare in qualche negozio di Katowice per comprarmi degli abiti e presentarmi in modo decente all’appuntamento.
Sulla parete di fronte a me c’era una mensola con alcune foto in bianco e nero. Erano foto che avevo già visto durante i vari documentari televisivi che trattavano dei campi di concentramento nazisti. Mi venne in mente che quella era una zona dove c’era il più tristemente famoso lager della Seconda guerra mondiale e chiesi al locandiere:
«È qui vicino Auschwitz?»
«Siamo ad Auschwitz! Il nome in polacco è appunto Oswiecim. Auschwitz non è altro che la traduzione in tedesco. Anche i nomi ci cambiarono in quel periodo.»
«Purtroppo ci furono tante assurdità commesse durante quell’inutile guerra, ma le due che ritengo pazzesche furono proprio i campi di sterminio e i bombardamenti indiscriminati da ambo le parti alle città, con la volontà di uccidere anche civili, oltre ai soldati.»
«Vero anche questo.» annuì il vecchio. «Ma niente a confronto dello scempio dei campi di concentramento, dove gli ebrei, gli zigani e gli omosessuali avevano il diritto di vivere qualche giorno e noi polacchi qualche mese.»
«Se la presero anche con voi polacchi?» chiesi vergognandomi un po’ dell’ignoranza in materia. Le poche cose studiate a scuola erano finite da tempo nel dimenticatoio a causa del ritmo vorticoso della vita.
«Quello che nessuno mai precisa è che lo scopo di Hitler e della sua cricca di criminali non era solo di sterminare gli ebrei, ma anche di allargare i confini della Germania per dare più spazio al popolo tedesco. Per fare ciò non doveva solo occupare dei territori nuovi, ma doveva anche svuotarli dai suoi precedenti abitanti. Ci fu una precisa volontà di cercare il più piccolo pretesto per annientare villaggi interi e deportare a masse gli abitanti delle città nei campi di lavoro, dove avrebbero lavorato fino alla morte. Mio padre, professore di filosofia all’università di Cracovia, è stato tre anni nel campo di concentramento Auschwitz uno, quando era appena un ragazzo. Vide morire in un vagone ferroviario in disuso, trasformato in camera a gas, la madre e il padre tenendo per mano il fratello più piccolo di dodici anni.
Chiunque si muoveva o parlasse dalla fila di parenti costretti ad assistere al macabro spettacolo veniva fucilato all’istante dagli Einsatzkommandos, soldati appartenenti ad un gruppo speciale addetto ai prigionieri nei campi di sterminio per evitare che i soldati di leva, avendo orrore delle atrocità che commettevano i loro connazionali, potessero disertare o peggio ancora ammutinarsi contro i loro comandanti.
Il piccolo Jozef non sopportò più di ascoltare le grida che provenivano dal carro bestiame e si liberò dalla stretta del fratello, scappando verso un bosco poco vicino. Subito due di quegli animali in divisa lo rincorsero nel bosco. Si sentirono alcuni colpi di pistola e niente più. Dopo qualche minuto i due ritornarono ridendo e fumando una sigaretta. Si fermarono davanti al più alto ufficiale presente e dissero che il fuggitivo era stato abbattuto, venendo elogiati dal SS-Gruppenfurer, in visita da qualche giorno in quel campo, che si complimentò con loro quasi avessero ottenuto una grande vittoria su un drappello di soldati nemici.»
Mentre l’uomo mi raccontava questa triste storia, un vecchietto più ossa che carne era uscito da una porta laterale e ci ascoltava piangendo sommessamente.
«È mio padre!» mi disse il locandiere. «Da quando i russi lo liberarono nel ’45 non si è mai ripreso completamente, e spesso se ne va in giro con una vecchia foto del fratello, maledicendosi per non aver avuto la forza di stringere più forte la sua mano. Si fa una colpa di quello che è accaduto e dice che non avrà mai pace se non troverà il corpo del fratellino per regalargli almeno una sepoltura da cristiano. È stato questo il motivo principale che lo ha spinto a ritornare a stabilirsi qui. Dall’altro lato del bosco c’erano i capannoni dove dormivano i prigionieri, che adesso sono diventati patrimonio dell’umanità.»
Il locandiere si avvicinò alla parete opposta e prese una vecchia cornice da farmi vedere.
«Ecco mio padre con mio zio Jozef nel 1941. Quelle bestie lo hanno ucciso e lasciato a marcire senza sepoltura a soli dodici anni.»
La pelle d’oca ritornò di nuovo e sentii i brividi partire a razzo dalla nuca alla schiena. La vecchia foto ritraeva due bambini di cui uno era lo sventurato che avevo incontrato nel bosco. Non c’erano dubbi! Era lui, anche se il piccolo che avevo incontrato io aveva lo sguardo perennemente fisso nel vuoto e il viso infossato a causa della denutrizione.
«Cosa significa la parola ponizej?» chiesi tutto tremante, non riuscendo a distogliere lo sguardo dalla vecchia immagine. Qualcosa di arcaico e misterioso mi attraeva e mi spingeva in direzione del bosco.
«Sotto! Oppure si usa al posto della frase “Qua sotto”»
Raccontai con gli occhi umidi dell’incontro avuto qualche ora prima nel bosco di betulle e della misteriosa apparizione. Il vecchio si mise le mani in faccia e incominciò a piangere come un bambino. Si rivolse a me in polacco, subito tradotto dal figlio anch’essi in lacrime.
«Per favore, Wloski, ci porti dove ha avuto l’apparizione. È stato un segno del Cielo!»
Presi la mia giacca e mi diressi verso il boschetto, seguito dal locandiere che sorreggeva il vecchio genitore. Non fu difficile raggiungere la piccola radura ove c’era la roccia poiché l’insegna della locanda per uno strano caso creava un raggio fra gli alberi che mi guidò per magia fino ad essa. Feci segno al locandiere che il bambino dell’apparizione mi indicava proprio quella roccia, e l’uomo, fatto sedere il padre sul tronco che avevo utilizzato io in precedenza, liberò la pietra dalle erbacce e dalle foglie.
Scavò solo pochi centimetri e spuntò un oggetto bianco che nonostante il buio identificammo subito come ossa umane. Delicatamente liberò quello che vedemmo subito si trattava del braccio di un piccolo scheletro. Jozef avrebbe finalmente avuto una tomba sotto cui riposare e dove i parenti potevano porgere un fiore. La sua posizione era stata nascosta da quella pietra per più di cinquanta anni, e solo il caso o chissà cos’altro aveva fatto sì che io poggiassi la mia giacca proprio su quella sporgenza.
Dell’apparizione non ne ho mai voluto parlare a nessuno per il timore di essere preso per un visionario. Solo io so il tormento che ho provato le settimane successive. In ogni momento del giorno e della notte ebbi impresso davanti a me lo sguardo triste di quel bambino, così intenso e magnetico da farmi provare sulla pelle una parte del dolore che aveva patito. Ci si poteva leggere tutto l’orrore che poteva provare un bambino di dodici anni, vedendo i suoi genitori camminare lenti, insieme a tanti altri compagni di sventura, ed entrare in un carro bestiame consapevoli di andare incontro ad una crudele morte, ma incapaci di reagire a tale sorte.
In una mia visione vidi – o immaginai di vedere - la madre di Jozef che veniva protetta dal marito nel vano tentativo di sottrarre la donna alla furia delle guardie, ma lei, indifferente ai calci dei fucili che le percuotevano la schiena, guardava immobile i due figli, con le gambe, il cuore e l’anima che rifiutavano di muoversi. La sua paura era che se fosse corsa verso i suoi piccoli quegli spietati aguzzini avrebbero preteso che anche i due bambini dovevano seguire i genitori. Sperava quindi di trasmettere loro tutto il suo amore con l’intensità del suo sguardo. E intanto chiedeva a Dio per quale motivo permetteva a degli uomini di far assistere a due bambini alla crudele morte dei genitori.
Poi una notte, qualche giorno dopo che il locandiere mi aveva telefonato e raccontato del funerale postumo che avevano voluto fare ai resti del piccolo fratello del padre, sognai lo stesso bambino venirmi incontro. I vestiti erano quelli laceri con cui l’avevo visto la prima volta, ma la differenza era dovuta ad una luce abbagliante negli occhi che rendeva il suo viso bellissimo.
Alzò la mano e mi salutò con un sorriso, prima di svanire per sempre.
Avevo visto un angelo!

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