Auschwitz
Tratto
dalla raccolta:
Disperso fra le pagine di un quaderno sgualcito
di Klem
D’Avino
Dopo tante peripezie personali ero stato assunto come responsabile agli
acquisti da una multinazionale con vari interessi commerciali in Repubblica
Ceca e altre nazioni Est-europee. Il ruolo era appetito da tanti e già due
volte in pochi mesi durante le riunioni del C.d.A. era stata messa ai voti la
proposta di sostituirmi. Se l’affare che mi stava portando in Polonia non
avesse dato gli esiti sperati, neppure i tanti progetti andati a buon fine nel
corso di quegli ultimi mesi sarebbero bastati a conservarmi il posto.
Già dalla
mattina il cielo era immerso in un pallido grigiore e rendeva il paesaggio
dello stesso colore. La pioggia incominciò a cadere fitta e sottile,
accompagnandomi con il suo monotono martellio per tutto il viaggio da Brno al
confine ceco-polacco di Cesky Tesin. Data l’ora tarda decisi di fermarmi a
dormire sul versante ceco e oltrepassare il confine solo il mattino dopo.
Pernottai in un accogliente albergo, che mi ricordava le tranquille locande
delle province austriache e gustai un buonissimo gulasch, cercando di
rilassarmi per presenziare con tutta la mia efficienza psicofisica all’importante
riunione di lavoro che si sarebbe tenuta il giorno dopo a Katowice.
Mi ero accordato con una fabbrica di cioccolato
austriaca per produrre in esclusiva per la catena di negozi gestita dalla
società per cui lavoravo un tipo di cioccolatino molto amato dai bambini. La
mia idea era di farne dei piccoli zaini di stoffa pieni di quella prelibatezza
e metterli sulle spalle a dei peluche che produceva una ditta di Katowice. Il
prezzo doveva essere accessibile per far sì che i genitori di tutti i ceti
sociali potessero regalare ai figli qualcosa di buono insieme con qualcosa di bello,
ma dopo il primo iniziale successo del mio “Sweet plush” i polacchi avevano
giocato a rialzo. Se non ci fossimo messi d’accordo, io non avrei potuto
prolungare il contratto e loro sarebbero stati liberi di sfruttare il successo
della prima ondata di peluche lanciando sul mercato un prodotto quasi simile.
Se fosse successo, dato che gli imprenditori di
Katowice erano stati indicati da me, i miei denigratori additando alla mia
incapacità nello scegliere i collaboratori, avrebbero decretato facendo il
possibile per togliermi il mandato.
Con quello stato d’animo preoccupato superai la dogana e m’immisi sulla
statale 933 che mi avrebbe portato al bivio con Cracovia e da lì sarei arrivato
a Katowice, la capitale del Voivodato di Slesia. Il tempo tendeva a peggiorare.
Nonostante si fosse in primavera, faceva freddo e l’umida foschia che saliva
dai boschi rendeva tutto il paesaggio cupo. Sobbalzai di colpo a causa di un
oggetto che avevo urtato sulla carreggiata e solo grazie alla moderata velocità
non finii fuori strada. Per evitare che le auto provenienti alle mie spalle mi
tamponassero, parcheggiai sul bordo della carreggiata tra scossoni tremendi
dell’avantreno.
Un tronco arrivato chissà come al centro della
carreggiata si era ficcato sotto l’auto, distruggendo una ruota e alcuni
componenti meccanici. Poiché spostarla senza un carro attrezzi era impensabile,
mi avvicinai al bordo della strada e cercai di attirare l’attenzione di qualche
automobilista. Ero fradicio per la pioggia quando si fermò un piccolo furgone.
Non conoscendo io il polacco né lui l’inglese, l’uomo riuscì a spiegarmi a
gesti che oltre il campo alla nostra destra c’era un piccolo borgo dove c’era
un’officina meccanica. Se avessi seguito la strada, avrei impiegato molto di
più che non attraversando la campagna. Lo ringraziai e mi affrettai a
raggiungere il meccanico per far togliere la mia auto dalla strada e farmi
chiamare un taxi.
Dall’alto della strada sembrava che il borgo fosse
vicino, invece a causa del suolo accidentato e scosceso, dopo un’ora di marcia
forzata non ero neppure a metà strada e dovevo percorrere ancora un boschetto
di betulle per raggiungere le case che si notavano attraverso la foschia. Nel
fitto del bosco la già scarsa luce svanì del tutto. La pioggia cadeva sempre
più fitta e i brividi di freddo mi facevano perdere quel poco di lucidità che
mi restava. Un’altra ora in quella selva fradicia e avrei rischiato di svenire
a causa dell’ipotermia. Mi resi conto di aver perduto l’orientamento e per non
correre il rischio di camminare in cerchio avevo bisogno di capire dove fosse
quel borgo prima di continuare il cammino. Posai la giacca su una roccia e mi
avvicinai a un albero dritto come un minareto, cosciente che con le scarpe e i
vestiti eleganti sarebbe stato quasi impossibile arrampicarmi su di esso. Non
posso dire di aver sentito qualcuno o qualcosa avvicinarsi. Non si vedeva
niente, non si sentiva nulla, ma percepivo una presenza che mi osservava.
Dopo qualche istante in cui parve che il mio cuore
smettesse di battere, un bambino di dieci o dodici anni, vestito miseramente e
con le guance scarne, come chi fosse denutrito da mesi, si avvicinò
timorosamente balbettando parole senza senso. Essere coraggioso non basta per
non avere paura dell’ignoto e quel bambino mi diede l’impressione di provenire
dall’oltretomba. Si fermò a pochi metri da me e mi fissò sempre emettendo degli
strani suoni che non riuscivo a comprendere. Il suo viso smunto, i suoi gracili
arti e l’aspetto miserabile, ebbero l’effetto di farmi dimenticare il panico di
poco prima, facendomi provare una morsa di pietà verso quel povero cucciolo di
uomo.
Con la sua flebile vocina ripeteva come una nenia la parola “ponizej” e
intanto mi faceva segno verso la roccia, dove avevo poggiato la giacca. Scossi
più volte la testa dicendo in varie lingue che non lo capivo. Allungai la mano
per cercare di carezzare quel viso cereo, ma lui si ritrasse e mi guardò in un modo così triste che dai miei
occhi incominciarono a fuoriuscire copiose lacrime. Si voltò e svanì nel buio
del bosco.
Mi ci volle un quarto d’ora per riprendermi da quello strano incontro. Anche
attraverso la camicia sentivo la pelle delle mie braccia accapponarsi.
Scrollando con forza la testa mi destai da quel malinconico torpore e mi alzai
con l’intento di arrampicarmi sul primo albero, ma non ce ne fu bisogno poiché
una luce si accese oltre gli alberi ed io potei seguirla con facilità. Era l’insegna
di una locanda, dove entrai e chiesi un bicchiere di vodka per riscaldarmi. Il
locandiere parlava un buon inglese e riuscii a spiegargli che cercavo un meccanico
che mi riparasse l’auto o perlomeno la togliesse dalla carreggiata.
L’uomo fece una lunga telefonata e mi disse che il tempo di riscaldarmi
e sarebbe giunto il carro attrezzi. Sedetti distrutto su una sedia posta vicino
a una grossa stufa a legna e cercai di asciugarmi per riprendere quanto prima
il viaggio. Pensai che se avessi fatto a tempo sarei potuto andare in qualche
negozio di Katowice per comprarmi degli abiti e presentarmi in modo decente all’appuntamento.
Sulla parete di fronte a me c’era una mensola con alcune foto in bianco e nero.
Erano fotografie che avevo già visto in vari documentari televisivi sui campi
di concentramento nazisti. Mi venne in mente che quella era la zona dove c’era
il più tristemente famoso lager della seconda guerra mondiale e chiesi al
locandiere:
«Auschwitz è qui vicino?».
«Siamo ad Auschwitz! Il nome in polacco è appunto
Oswiecim. Auschwitz non è la traduzione in tedesco. In quel periodo cambiarono anche
i nomi alle nostre città».
«Purtroppo ci furono tante assurdità commesse
durante quell’inutile guerra, ma le due che ritengo pazzesche furono proprio i
campi di sterminio e i bombardamenti indiscriminati da ambo le parti sulle
città, con la volontà di uccidere anche i civili, oltre ai soldati».
«Vero anche questo» annuì il vecchio. «Mi auguro che l’umanità non
conosca un altro scempio come quello dei campi di concentramento, dove gli
ebrei, gli zigani e gli omosessuali avevano il diritto di vivere qualche giorno
e noi polacchi, qualsiasi religione avessimo professato, sopravvivevamo al
massimo pochi mese».
«Se la presero anche con voi polacchi?» chiesi vergognandomi un po’ dell’ignoranza
in materia. Le poche nozioni apprese a scuola erano finite da tempo nel
dimenticatoio a causa del ritmo vorticoso della vita.
«Quello che nessuno mai precisa è che lo scopo di Hitler e della sua
cricca di criminali non era solo di sterminare gli ebrei, ma anche di allargare
i confini della Germania per dare più spazio vitale al popolo tedesco. Per fare
ciò doveva svuotare i territori occupati dai precedenti abitanti. Ci fu una
precisa volontà di cercare il più piccolo pretesto per annientare villaggi
interi e deportare in massa gli abitanti delle città nei campi di lavoro, dove
avrebbero lavorato fino alla morte. Mio padre, figlio di un professore di
filosofia all’università di Cracovia, è stato tre anni nel campo di
concentramento Auschwitz uno, quando era appena un ragazzo».
L’uomo, invogliato da me, continuò a raccontarmi di quei terribili anni.
Il padre aveva visto morire in un vagone ferroviario in disuso, trasformato in
camera a gas, la madre e il padre mentre teneva per mano il fratello Jozef di
dodici anni. Chiunque si muoveva o parlasse dalla fila di parenti costretti ad
assistere al macabro spettacolo era fucilato all’istante dagli Einsatzkommandos,
soldati appartenenti a un gruppo speciale addetto ai prigionieri nei campi di
sterminio per evitare che i soldati di leva, avendo orrore delle atrocità che
commettevano i loro connazionali, potessero disertare o peggio ancora
ammutinarsi contro i loro comandanti.
Per impedire che i figli corressero verso di lei e condividessero la sua
sorte e quella del marito, la madre urlò ai due ragazzini di non muoversi,
venendo colpita più volte dal militare vicino. Entrò nel carro bestiame sorretta
dal marito, dicendo ai figli di farsi forza e attendere con fiducia che quella
vergogna finisse in un modo o nell’altro.
Il piccolo Jozef non sopportò più di ascoltare le grida che provenivano
dal carro bestiame e si liberò dalla stretta del fratello, scappando verso un
bosco vicino. Due militari lo rincorsero e dopo qualche minuto si sentirono
alcuni colpi di pistola. Ritornarono ridendo e fumando una sigaretta, si
fermarono davanti al più alto ufficiale presente e dissero che il fuggitivo era
stato abbattuto, venendo elogiati dallo SS-Gruppenfurer che si complimentò con loro,
quasi avessero ottenuto una grande vittoria su un drappello di soldati nemici».
Mentre l’uomo mi raccontava questa triste storia, un vecchietto ossuto
uscì da una porta laterale e ci ascoltò piangendo sommessamente.
«È mio padre» disse il locandiere. «Da quando i russi lo liberarono nel ’45,
non si è mai ripreso completamente. Se ne va in giro con una vecchia foto del
fratello, maledicendosi per non aver stretto più forte la sua mano. Si reputa
colpevole per ciò che è accaduto e non avrà pace finché non troverà il corpo
del fratellino per regalargli una sepoltura umana. È stato questo il motivo
principale che l’ha spinto a stabilirsi qui. Dall’altro lato del bosco c’erano
i capannoni, dove dormivano i prigionieri che adesso sono diventati patrimonio
dell’umanità».
Il locandiere si avvicinò alla parete opposta e prese una vecchia
cornice da farmi vedere.
«Ecco mio padre con mio zio Jozef nel 1941. Quelle bestie l’hanno ucciso
e lasciato marcire senza sepoltura a soli dodici anni».
Sentii i brividi partire a razzo dalla nuca e arrivare alla schiena. La
vecchia foto ritraeva due bambini di cui uno era lo sventurato che avevo
incontrato nel bosco. Anche se il piccolo che avevo incontrato aveva lo sguardo
perennemente fisso nel vuoto e il viso infossato a causa della denutrizione.
«Che cosa significa la parola ponizej?» chiesi tutto tremante, non
riuscendo a distogliere lo sguardo dalla vecchia immagine. Qualcosa di arcaico
e misterioso mi attraeva e mi spingeva in direzione del bosco.
«Sotto! Oppure si usa al posto
della frase “Qua sotto”».
Raccontai commosso dell’incontro che avevo avuto qualche ora prima nel
bosco di betulle e della misteriosa apparizione. Il vecchio si mise le mani in
faccia e incominciò a piangere. Si rivolse a me in polacco, subito tradotto dal
figlio anch’essi in lacrime.
«Per favore, Wloski[1], ci
porti dove ha avuto l’apparizione».
Mi diressi verso il boschetto, seguito dal locandiere che sorreggeva il
vecchio genitore. Non fu difficile raggiungere la piccola radura dove c’era la
roccia poiché l’insegna della locanda per uno strano caso creava un raggio fra
gli alberi che mi guidò fino a essa. Feci segno al locandiere che il bambino
dell’apparizione m’indicava la roccia sopra la quale avevo appoggiato la
giacca. L’uomo dopo avere fatto sedere il padre su un tronco, liberò la pietra
dalle erbacce e dalle foglie. Scavò solo pochi centimetri quando spuntò dalla
terra un oggetto bianco che, nonostante il buio, ci sembrò subito appartenere a
un essere umano. Il piccolo scheletro era stato nascosto da quella pietra per
più di cinquant’anni e solo il caso o chissà quale sovrumana volontà aveva
fatto sì che io poggiassi la mia giacca proprio su quella sporgenza. Adesso Jozef
avrebbe finalmente avuto una tomba in cui riposare e il fratello avrebbe
trovato un po’ di pace avendo un luogo dove posare un fiore.
Dell’apparizione non ne ho mai voluto parlare a nessuno per il timore di
essere preso per un visionario. Solo io so la spiacevole sensazione che ho
continuato a provare le settimane successive. In ogni momento del giorno e
della notte avevo davanti agli occhi lo sguardo triste di quel bambino, così
intenso e magnetico da farmi provare nell’anima il dolore che aveva patito. Ci
si poteva leggere tutto l’orrore che avrebbe potuto provare un bambino di
dodici anni, costretto a vedere i suoi genitori andare incontro a una morte crudele,
ma incapaci di reagire a tale sorte.
In una mia visione vidi – o immaginai di vedere - la madre di Jozef protetta
dal marito nel vano tentativo di sottrarla alla furia delle guardie. La donna sembrava
insensibile ai calci dei fucili che le percuotevano la schiena e urlava ai due
figli di non correre ad abbracciarli per paura che quegli spietati aguzzini avessero
condotto anche loro nel vagone.
Poi una notte, qualche giorno dopo che il locandiere mi aveva telefonato
per raccontarmi del funerale postumo che avevano fatto ai resti del piccolo fratello
del padre, sognai lo stesso bambino venirmi incontro. I vestiti erano quelli
laceri con cui l’avevo visto la prima volta, ma una luce abbagliante negli
occhi rendeva il suo viso bellissimo.
Alzò la mano e mi salutò con un sorriso, prima di svanire per sempre.
Avevo visto un angelo!