mercoledì 14 luglio 2010

AMORE VIRTUALE


dedicato a tutti gli internauti:
sempre di più il mondo virtuale ha preso il posto della vita reale. ciò è un bene per conoscere persone lontane, ma se ci si nasconde dietro un monitor falsando la realtà, prima o poi qualcuno ne soffrirà.
AMORE VIRTUALE


Lo stupido litigio
attraverso il freddo monitor
ci ha lasciati esausti e disperati.

Aspre parole
amplificate dalla lontananza
dove il profumo della pelle
è solo una sensazione
e la furia non viene mitigata
dal calore dei nostri occhi.

Per un futile equivoco
si è spezzato quel magico
filo che ci teneva uniti
e niente potrà ricongiungerlo
in questa virtualità
dove solo le illusioni
non bastano a mantenere
vivo un sentimento nato
dalle nostre emozioni.

venerdì 9 luglio 2010

ISTANTE SUPREMO


ISTANTE SUPREMO


È la gelida mano a contrastare
l’intenso calore dei tuoi occhi.
Teneramente mi carezza la guancia
e scivola tremula nei capelli
mentre lentamente ti avvicini
e sfiori le labbra facendomi rabbrividire
col tuo caldo e appassionato respiro.

Estasiando i miei sensi
col più sensuale dei sorrisi
con un dolce sussurro delicato
come il volo di una piuma
mi dici: ti amo.

Ti stringo a me
annullando nel dolce e acre
profumo della tua pelle
la mente errante.

Poggio la tua testa sul mio petto
e guardando il Cielo
– prego tacitamente –
che se pur dovessi morire
che sia in quest’istante.

mercoledì 7 luglio 2010

IL RITORNO DEL FALCO - la metafora della mia vita -


IL RITORNO DEL FALCO

Le immagini che vedi sono distorte e si muovono come se la rifrazione termica di un pomeriggio afoso e assolato le facesse strisciare con il tipico andamento di un rettile pronto ad attaccare. Non riesci a renderti conto se tu sia desto o in balia dei soliti incubi notturni, e fai fatica a renderti conto di dove tu realmente stia.
Sognavi il tuo nido sulla rupe protetta dai venti sul versante Est della grande montagna. Sognavi la tua compagna che ti guardava con ammirazione, convinta e sicura che il tuo corpo e il tuo coraggio le avessero offerto qualsiasi tipo di protezione. Ma a spazzare i sogni felici c’era sempre la scura nube all’orizzonte che cresceva man mano che si avvicinava al tuo rifugio, fino ad occultarlo del tutto.
Cosa vuoi che sia la forza o la determinazione, se ti è nemica la sorte? Se nell’ombra il destino ti è nemico e trama contro di te affinché tu perda tutto quello che faticosamente hai conquistato? Eppure al domani non chiedevi altro che un po’ di quiete per poter vivere in pace e poter far sanare le ferite del corpo e dell’anima ottenute dalle spine della vita mentre lottavi per conquistarti un tuo piccolo spazio. Non volevi troppo. I voli pindarici non hanno mai avuto spazio nella tua mente. Ti bastava quel poco per rendere dignitosa la tua esistenza e quella dei tuoi cari, e con l’inganno, con il tradimento sono riusciti a toglierti tutto. Come se tanta gente odiasse chi non vuol far parte della grigia massa e volesse sottrarsi da quello che considera più uno squallore che un progresso. E tutto hanno fatto, tutto hanno detto, fino a che sono riusciti a rinchiuderti in una gabbia a soffrire tutti i giorni di nostalgia e morire dentro mentre vedevi i tuoi cari perire o allontanarsi da te, dalla tua nuova vita di recluso, dal tuo cuore perennemente innamorato.
Ma il risveglio di quel mattino ti porta nuova forza, nuova speranza. Nuove illusioni. Il sangue circola velocemente nelle vene e una scarica di adrenalina ti fa sussultare. Scuoti le ali con furiosa veemenza, per sottrarti del tutto dai tentacoli di quel frustrante limbo che ti intorpidisce mente e corpo, e sei sorpreso dalla energica vigoria che ti trasmettono fin dentro l’anima. Sorridi all’elettrica forza che provi, invece del solito, acuto dolore che ti annientava ad ogni pur piccolo movimento. Un ghigno sardonico illumina il tuo viso e due occhi scintillanti e fieri lanciano saette di fuoco in cerca di chi stolto ti credeva finito, solo perché atrocemente colpito.
Eretto in tutta la ritrovata maestosità, sei pronto a spiccar il volo e librarti finalmente verso l’immenso cielo, quando uno stridio selvaggio sfocia angoscioso dalla tua gola nel vederti circondato da solide sbarre che oltraggiose ti proibiscono l’accesso al tuo vero mondo. Ricordi lontani, come immagini sfocate, si affacciano alla mente, creando un magma infuocato nel tuo stomaco. Rabbioso, ti vedi nella passata agonia debole e provato picchiare contro le infauste sbarre. Lasciarti infine cadere esausto e privo di forza sul freddo suolo della funesta realtà, con l’aspra lacrima a ricordarti quel destino da prigioniero, cucito sulla tua pelle, per ripagarti dell’inesauribile sete di libertà che sempre ha accompagnato ogni tua scelta di vita.
Il furore ti rende folle e centuplica le tue forze; inferocito spicchi un balzo incurante del ferro che tenta di frenare la tua esasperante corsa. Preferisci la morte - non una ma cento volte – invece di quella vegetale esistenza fra le fredde sbarre. Ma niente può impedire il passo alla pazza voglia di vivere che invade la tua anima; e quello che sembrava poco tempo prima una prigione insuperabile, si frantuma in mille pezzi come il più fragile dei cristalli.
Gli inetti e i meschini che si illudevano di averti rinchiuso grazie alle loro bugie, si stupiscono nel vedere il sole oscurarsi dalla tua maestosa ombra. Alzano lo sguardo increduli e spaventati e scappano nelle loro luride tane per il timore che ti rammenti dei tuoi aguzzini. Ma sei troppo in alto e non ti curi di essi, ora che il tuo sguardo ha per orizzonte l’immensità.

martedì 6 luglio 2010

SEI QUELLO CHE LA GENTE CREDE TU SIA (racconto su ambiente e società attuale)


SEI QUELLO CHE LA GENTE CREDE TU SIA

«Già le sette! Come è tardi, maledizione! Anche oggi arriverò in ritardo a lavoro.»
L’uomo si vestì alla svelta, impigliandosi più volte nei vestiti, e, senza fare colazione, si precipitò dalle scale. Prese velocemente la vecchia bicicletta, l’unico mezzo di locomozione che si poteva permettere per colpa dell’inflazione arrivata alle stelle e del salario sempre uguale - da tempo giunto oltre la soglia del limite minimo di sussistenza - e come un forsennato incominciò a pedalare.
Per recuperare una manciata di minuti decise di prendere come scorciatoia la stradina di campagna che passava alle spalle del centro industriale, sperando di non forare una ruota o finire dentro qualche buca.
La brulla e desolata campagna, divenuta grigia come il fumo delle ciminiere, era cambiata radicalmente da quando nell’ultimo piano regolatore ne avevano modificato la destinazione per la realizzazione di un polo industriale. Gli obblighi nel piano di lottizzazione prevedevano che i vari industriali dovessero preservare dall’inquinamento quell’ultimo pezzettino di verde, non costruendo selvaggiamente, ma preoccupandosi di inquinare il minimo possibile utilizzando depuratori per le acque, filtri per le ciminiere e altre forme di prevenzione. Ma era un obbligo solo sulla carta e gli organi di controllo preposti si erano guardati bene dal non intralciare le esigenze dei ricchi industriali, che, pur di guadagnare qualche milione di euro in più, erano disposti ad inquinare anche tutto il pianeta.
Ben presto i contadini avevano smesso di raccogliere i frutti della terra per non rischiare una qualche forma di cancro per essi o per quelli che compravano tali prodotti al mercato per colpa delle polveri sottili nell’aria e del riversamento di fanghi e liquidi tossici sia nelle fogne che in pozzi a perdita, che avevano raggiunto le falde acquifere; e chi non era riuscito a (s)vendere il proprio orto, aveva deciso di abbandonarlo a se stesso.
L’ultima volta che l’operaio era passato per quel luogo l’insediamento industriale era già in atto. La differenza fra prima e dopo la faceva un campo proprio al centro della piccola vallata che rispecchiava come un verde smeraldo in un mare di grigio squallore. Il vecchio contadino, proprietario dell’appezzamento, non interessato al profitto che avesse potuto ricavare dal campo, quanto a soddisfare la sua passione per la Terra, aveva realizzato un’opera d’arte fatta di alberi da frutta di diverse specie che, fiorendo, creavano un arcobaleno su uno sfondo verde.
Peschi, ciliegi, pruni, albicocchi, nespole si susseguivano a filari ordinati e lussureggianti. Sembrava che la natura avesse riconquistato il dominio sull’universo, sconfiggendo le brutture create dall’uomo. Ma era durata poco, e per l’operaio vedere quello stesso campo abbandonato, divenuto dello stesso grigio circostante, era fonte di rammarico. Si avvicinò al cancello d’entrata e lesse su un cartello che il podere era stato messo in vendita dal Comune per la morte del proprietario e la mancanza di eredi.
Cosa era quella tristezza che gli invase l’anima? Non lo sapeva! Come non avrebbe saputo rispondere se qualcuno gli avesse chiesto perché avesse abbandonato la bicicletta e si fosse recato nel capanno a prendere una vecchia zappa. E neppure sapeva da quale mondo astrale o ancestrale gli provenisse la grande forza usata per estirpare le erbacce intorno agli alberi avvizziti.
Infischiandosene di avvisare il responsabile in fabbrica per la sua assenza, lavorò febbrilmente l’orto come se fosse l’unica cosa importante nella vita. L’unica azione che valesse la pena di compiere e per cui consumare il prezioso tempo della nostra breve esistenza.
Le ore scorrevano veloci e l’operaio, tergendosi il sudore, sorrise soddisfatto vedendo un pezzo di terreno dissodato e ripulito dalla sterpaglia e dallo strato di fuliggine grigiastra. Era opera sua quel miracolo! E si inebriò con quella bella e nuova sensazione e con il fresco profumo del terreno appena zappato.
Da qualche anno il professore di filosofia della vicina università, prima di recarsi a lezione - dietro consiglio del medico - per problemi di circolazione sanguigna, passeggiava per quei paraggi: la zona più simile ad una campagna di tutto il circondario, anche se dell’aria pura non conservava neanche il sentore.
Aveva assistito giornalmente al disfacimento di quell’unico campo coltivato facendo varie disquisizioni sulla futilità della vita e sull’imponderabile condizione mortale di ogni essere vivente. Spesso aveva cercato nella sua immensa mente di trovare una soluzione e impedire quell’ultimo scempio alla natura circostante, ma tutto ciò che aveva elaborato gli sembrava irrealizzabile. Solo utopia.
Vedendo quel giovane lavorare fischiettando, capì che con le sole idee, anche se eccelse come le sue, non si sarebbe risolto il problema, ma servivano le braccia e il sudore della fronte. Rinvigorito da una strana atavica forza, discese la piccola scarpata e, dopo un cenno di assenso al giovane, prese un rastrello dal capanno e incominciò ad ammonticchiare l’erbaccia estirpata dall’operaio nella piccola aia.
Per conoscenza didattica sapeva che piante parassite come la gramigna (nonostante fosse una pianta medicinale) non erano adatte al sovescio ma si dovevano far essiccare e poi bruciare altrimenti le loro radici rampicanti avrebbero invaso il suolo, defraudando le altre piante di sostanze nutrienti.
Lavoravano in silenzio, e solo di tanto in tanto sollevavano la testa e guardavano il risultato del loro lavoro. E, contenti degli evidenti progressi, si chinavano e ritornavano a lavorare con nuova lena.
Una grossa auto, che occupava tutta la stradina, si fermò poco lontano e un uomo scese per osservare la zona. Era il più importante industriale della regione e si era recato fra quei campi abbandonati per dar loro un’occhiata dopo che l’assessore all’urbanistica, dietro un suo lauto compenso, gli aveva consigliato di acquistare quei terreni, pagandoli una modica cifra perché considerati ancora in zona agricola. Ma con il prossimo piano regolatore sarebbero rientrati nella zona di espansione urbanistica e si sarebbero realizzati su di essi vari servizi atti a soddisfare le esigenze della vicina area ad alta intensità produttiva. Dopo di allora il loro valore si sarebbe certamente decuplicato facendo la fortuna di chi fosse stato tanto saggio da acquisirne in precedenza la proprietà.
Riconobbe subito il vecchio luminare nell’ometto canuto che stava lavorando nel campo, e ammirò la vigoria del giovane mentre con una grossa zappa liberava un albero dalle erbacce. Non si chiese perché stessero lavorando quel podere abbandonato e in vendita come gli altri, ma sentì come se un lamento provenisse dal campo e qualcuno o qualcosa invocasse anche il suo aiuto. Si soffermò a riflettere, senza però riuscire a capire cosa lo spingesse ad osservare quel campo. Fu questione di un attimo, non resistette più al richiamo e scese di corsa verso il capanno. Come se avesse sempre fatto quei lavori manuali, prese una roncola e incominciò a tagliare i rami secchi e divelti dagli alberi.
Ognuno di essi, guardando il proprio lavoro e quello degli occasionali compagni, annuiva soddisfatto, e in silenzio continuava, scambiandosi spesso gli attrezzi in modo che potessero dare il proprio contributo ad ogni tipologia di lavoro. Non parlavano. Non ce n’era bisogno! Come se qualsiasi rumore oltre quello degli utensili fosse stato una provocazione in quel tempio della Natura. In quel tempio della vita!
Di tanto il tanto il professore si fermava a riposare e guardava con orgoglio i due uomini intenti a combattere contro le erbacce per far riprendere splendore al campo. Intuì che il caso aveva voluto che tre persone socialmente diverse si fossero trovate nello stesso luogo e avessero ascoltato l’invocazione che la Madre Terra emanava nella mente degli uomini.
Fu felice di ciò. Di norma la gente non sente neppure quei messaggi telepatici usati dagli altri esseri viventi che popolano il nostro pianeta e, a differenza dell’uomo, non hanno corde vocali per urlare il proprio sgomento. Invece quella volta il miracolo era riuscito!

La grossa macchina dell’industriale occupava quasi del tutto la carreggiata, e dopo qualche ora si trovò a transitare una decappottabile con quattro giovani che dovettero fermarsi e cercare il proprietario dell’automezzo se avessero voluto proseguire. Erano due coppiette di studenti che avevano scelto di passare qualche ora ad amoreggiare lontano da occhi indiscreti. Seccati dal contrattempo, suonavano il clacson e schiamazzavano per farsi sentire. Videro i tre uomini che lavoravano il campo e si avvicinarono per chiedere se avessero visto il proprietario dell’auto. Impensabile per essi che fosse l’automezzo di uno di loro, dato che dei contadini non avrebbero mai potuto permettersela neppure se avessero lavorato per trecento anni. Quando furono abbastanza vicini, una delle ragazze disse:
«Il giovane lo conosco. Fa l’operaio nella ditta che dirige mio padre.»
«Io invece conosco il vecchio. Ha la cattedra di filosofia nell’università dove è iscritto mio fratello.» aggiunse il ragazzo al suo fianco.
«E io sono sicuro di non sbagliarmi dicendo che il terzo è il proprietario della metà delle fabbriche della zona. Lo conosco perché ha acquistato un’azienda vicino a quella di mio padre.» asserì il terzo giovane.
«Ma cosa fanno?» chiese l’altra ragazza.
«Beh, l’operaio arrotonderà il salario facendo il contadino nelle ore libere.» rispose la prima ragazza.
«Il professore certamente si diletta con l’hobby della ortofrutticoltura.» interloquì il fratello dell’universitario.
«Invece il commendatore è famoso per essere un estroso. Stamattina si starà divertendo facendo finta di essere un contadino, oppure vorrà constatare cosa si provi a lavorare la terra con le proprie mani.»
Il professore fu deluso da quei ragionamenti e si dispiacque con i compagni che i quattro giovani non fossero stati anch’essi tanto sensibili da percepire la voce della Natura come era successo a loro tre, ma le loro menti comprendevano solo l’atrofizzato concetto sociale che si era imposto l’uomo per sopraffare se stesso e gli altri esseri viventi ritenuti inferiori.
«Povera umanità!» esclamò triste. «Quale sarà il tuo domani se tutti, anche quelli che dovranno vivere il domani, non si rendono conto che se non ritorneranno ad imparare ad amare e ascoltare ciò che ci circonda e che favorisce la nostra stessa vita presto tutto sarà irrimediabilmente perduto?»
Scrollò la testa sconsolato e ritornò al suo lavoro.
Il giovane operaio, che a differenza del più saggio professore non sapeva e non si creava neppure più di tanto il problema di sapere cosa fosse stata la molla che lo aveva spinto a compiere quel lavoro di bonifica, dopo aver ascoltato prima i discorsi dei ragazzi e poi le commosse lamentele del famoso luminare, si rivolse a quest’ultimo per avere dei chiarimenti non sulle disquisizioni filosofiche fatte da questi che prevedevano ere glaciali, olocausti ed ecatombe varie, ma su concetti a lui più vicini come la discriminazione sociale:
«Mi scusi, professore, e mi scusi la poca perspicacia e la grande ignoranza, ma, mi può spiegare, lei che è un dotto, perché hanno dato tre definizioni diverse a ciò che facciamo? Non stiamo facendo la stessa cosa?»
Ulteriormente deluso poiché la sua apologia a favore dell’ambiente non era stata capita neppure dai suoi compagni, nonostante avessero anch’essi ascoltato i vagiti del mondo quasi al collasso, ma si preoccupavano invece di conoscere cose che lui riteneva futili come i contesti sociali. Ma quello era l’uomo! E anche il migliore di essi non si sarebbe curato di un albero o di un animale se tale essere vivente avesse ostacolato il suo cammino o fosse stato considerato una fonte di guadagno. Nessun uomo, fin quando si sarebbe ritenuto superiore al proprio simile solo per avere un incarico superiore oppure per la possibilità di comprare quello che a tanti era precluso per questioni economiche, avrebbe mai capito che per la Natura la vita di un albero era superiore alla vita di un umano poiché con l’albero poteva completare un ciclo vitale completo e complesso, con l’uomo ci avrebbe solo rimesso.
Lasciò quindi perdere le sue idee ambientaliste e spiegò all’operaio come ragionassero la maggioranza degli uomini e cosa fosse importante per loro.
«Vero che stiamo facendo lo stesso lavoro!» disse allora. «Loro però non lo considerano tale, altrimenti ci metterebbero allo stesso livello e nella stessa condizione sociale. Cosa che appunto la società non accetta. Io qualsiasi cosa farò, anche la più stupida, sarò sempre un professore con tanto di lauree da mettere in mostra. Il nostro amico industriale qualsiasi sciocchezza dica o faccia sarà sempre una persona ammirata e invidiata per il peso e l’importanza dati dal suo patrimonio. E tu, potrai fare anche la cosa più nobile o intelligente di questo mondo, per la gente sarai sempre un modesto operaio.»