mercoledì 22 settembre 2010

SE SOLO…




Se solo domani
non fosse come ieri.
Se il sole non creasse solo ombre
e mi regalasse finalmente
un po’ del suo calore.
Se solo il tempo
non si fosse fermato
e i miei sogni
– proseguendo da soli –
non si fossero frantumati
contro il muro delle illusioni.

Se…
Se solo la vita
non fosse piena di “se”
ma avesse qualche certezza
anche per chi – come me –
vaga nel buio della disperazione
alla ricerca di qualche
rara sensazione
che possa fargli provare
ancora emozione.

venerdì 17 settembre 2010

OI NE’ - poesia in napoletano con traduzione -



OI NE’

Oi ne’,
che d’è ‘sta faccia triste?
Nfunno nfunno
tutto ‘sto dramma nun esiste.

È ‘o vere!
Sulo aiere
te chiammava ammore,
e mo ‘o core
te se spacca mpietto
sentenno quanno è friddo
chisto lietto.

Sprieche e gghiurnate
aspettanno chi
nun turnerria mai.
E ‘sta malinconia
diventa sempe cchiù
na malatia.

‘O saccio che è difficile fa
cumme se isso nun esistisse cchiù,
ma pruovece, fallo pe te!

giovedì 16 settembre 2010

IL MISERABILE - versione definitiva del racconto che accusa le istituzioni per i disastri ambientali con le correzioni consigliate da Milena Madera


IL MISERABILE
L’odore di disinfettante dava allo stomaco. Per un uomo nato e vissuto in aperta campagna, come Mario Verza, l’aria viziata della corsia dell’anonimo ospedale faceva provare dei capogiri. Con lo sguardo cercava inutilmente di trovare una finestra aperta per avvicinarsi ad essa e inalare una boccata d’aria. Ma evitò per timidezza di alzarsi dallo stretto e duro sedile di plastica dove lo aveva fatto accomodare l’infermiere del Pronto Soccorso, trattandolo con scortesia a causa dei vestiti sporchi e consunti propri di chi si fosse recato con urgenza in ospedale venendo direttamente dai campi. Preferì stare a capo chino con la vecchia berretta fra le mani inspessite dai calli, facendo finta di non notare gli sguardi disgustati o ironici della gente che aspettava anch’essa nella piccola sala d’attesa.
In silenzio ripeteva una commossa invocazione, sperando che l’esito di quell’estenuante attesa non fosse come quella fatta pochi anni prima quando aveva condotto in un altro ospedale il suo povero figlioletto, morto per problemi respiratori a soli dodici anni d’età.
Quella mattina si era alzato all’alba come ogni giorno e si era recato nel piccolo podere avuto in eredità dai genitori, dove lui e la moglie Adelina ricavavano gli ortaggi che portavano al mercato e con cui andavano avanti tra stenti e privazioni, quando Beppe, il suo vicino di casa, era corso fin giù alla vallata per dirgli che Adelina stava male e urlava per un forte dolore al basso addome.
Erano alcuni giorni che la donna aveva la febbre e non se l’era sentita di portarla con lui a lavorare nei campi. Il medico generico il giorno prima le aveva prescritto degli antipiretici senza neanche visitarla, dicendo che erano sintomi di stagione e sarebbero passati in pochi giorni. Lasciò il vecchio motorino e salì in fretta e furia nell’auto di Beppe, arrivando pochi minuti dopo dalla moglie, pallida come un cadavere, che si dimenava sul pavimento, contorcendosi dal dolore. Vedendo arrivare i due uomini, per un istintivo pudore, Adelina cercò di coprirsi l’addome, spiegando al marito che appena le era cominciato il ciclo mestruale aveva avvertito delle fitte lancinanti al basso ventre e il sangue usciva copioso e inarrestabile.
Lo sconvolto Mario la strinse a sé fra le braccia divenute d’acciaio per il troppo lavoro e pregò Beppe di accompagnarlo al primo ospedale. Ed era nella sala d’attesa di quello stesso ospedale che era seduto, impacciato e incapace di rivolgere la parola a chicchessia, fissando la porta che si era chiusa molte ore prima dietro la barella ove avevano sdraiato la sofferente Adelina.
Si era fatta sera quando alcuni medici uscirono parlottando fra loro e si avvidero del fattore seduto sul piccolo sedile attaccato al muro. La timidezza impediva a Mario di chiedere informazioni, e sperò che almeno questo gruppetto di medici e infermieri gli dicesse cosa fosse successo alla sua amata Adele.
Forse fu il suo sguardo supplichevole ed eloquente, o chissà, una sensibilità da parte di uno dei medici, che fece fermare il Dottore a pochi passi dall’uomo seduto e gli chiese chi attendesse.
«Stamattina ho portato mia moglie, Adele Ruocco, con una forte emorragia. Sa qualcosa sul suo stato di salute, Dottore?»
«Ma come!» Urlò il chirurgo. «È da stamattina che la signora Ruocco è stata ricoverata e nessuno si è preoccupato di avvisare il marito?»
«Non sapevamo che ci fossero parenti in attesa in Pronto Soccorso e la signora a causa del suo attuale stato di confusione non ci ha detto nulla.» Tentò di giustificarsi uno degli infermieri.
«Ormai è fatta!» Aggiunse il medico alzando le spalle. «Venga con me al piano di sopra signor Verza, le spiego come stanno le cose.
Vergognandosi per le tracce di terra che lasciavano i suoi scarponi da contadino, che provocavano non pochi risolini ironici fra gli addetti ai lavori e i parenti dei pazienti, Mario seguì l’uomo in camice verde - che si era presentato come il professore Alfonso Rega - fin dentro un piccolo studio ricolmo di cartelle cliniche e schede mediche. Fatto accomodare l’impacciato fattore, il professionista prese una cartella a cui postò il nome della donna ricoverata e chiese varie informazioni al marito.
«Mi sta dicendo che lei e sua moglie abitate in un paesino in aperta campagna, ma sa se in passato la signora Adele ha vissuto in qualche grosso centro industrializzato, oppure se ha lavorato in qualche industria chimica, metallurgica o siderurgica?»
«Conosco mia moglie da quando è nata, Dottore!» Asserì Mario. «Da ragazza aiutava i suoi genitori nell’orto che confinava con il mio e appena maggiorenni ci siamo sposati. Eccetto un paio di brevi viaggi, non ci siamo mai spostati dal nostro paese natio e abbiamo sempre lavorato nei campi poco distanti dalla nostra casa, dove lavoriamo tuttora.»
«Avete figli?»
«Ne era sopravvissuto solo uno ai tanti aborti spontanei che ha subito mia moglie, ma il nostro adorato Roberto è morto tre anni fa per problemi respiratori.»
«Ha delle cartelle cliniche di suo figlio?»
«Io non ho niente. Forse ce l’ha il nostro medico curante che ha seguito la malattia di mio figlio da quando è nato fino alla sua tragica fine.»
«Va bene così per adesso, signor Verza. Queste informazioni mi servono per capire qualcosa di più della patologia di sua moglie.»
«Ma cos’è successo a mia moglie?»
«Questo glielo saprò dire dopo che avremo realizzato una laparoscopia; per adesso dai sintomi non mi sento di escludere che sua moglie sia affetta da endometriosi, una forte infiammazione all’utero. Per realizzare questo esame bisogna sottoporre la paziente ad anestesia totale, per questo le chiedo di firmare questa liberatoria per tutelare l’ospedale da qualche effetto collaterale posteriore l’autopsia.»
«Madonna benedetta! Povera moglie mia. Cosa posso fare Dottore?»
«Per adesso ben poco. Al massimo può andare dal suo medico curante e farsi dare tutta la documentazione che ha raccolto su sua moglie nel corso degli anni. Ho bisogno di tutti gli elementi per fare una giusta anamnesi di questo caso.»
Detto ciò, il bravo medico si alzò e porse la mano al contadino che gliela strinse con delicatezza per paura che la sua dura mano potesse ferire quella curata del dottore. Andò quindi al capezzale della moglie, posta su un letto di una camera con molte altre pazienti, e la trovò ancora debilitata per la grossa perdita di sangue e instupidita dai forti antidolorifici.
Si strinsero la mano e piansero in silenzio per non farsi sentire dagli altri pazienti e dai loro parenti, non accorgendosi che il chirurgo li stava osservando dal fondo del corridoio.
«Cosa pensi?» Gli chiese il suo amico e collega, seguendo lo sguardo dell’altro e fissando anch’egli i due fattori.
«Ai sintomi di quella povera donna. Se non sapessi per bocca del marito che lei ha vissuto tutta la vita in un ambiente incontaminato, avrei diagnosticato un avvelenamento dovuto al contatto cronico e diretto con inquinanti organici persistenti.»
«I pop? E dove vuoi che abbia inalato o ingerito delle diossine? La mia famiglia è natia di un paese vicino a dove risiedono quei due, e anch’io, come tanti nostri concittadini, mi reco spesso in quella zona dell’entroterra per comprare frutta, verdura e prodotti caseari sani e naturali.»
«È questa la mia preoccupazione!» Disse Rega annuendo. «Se il mio sospetto che la patologia della donna è dovuta ad agenti carcinogeni come il Pcdd oppure il Tcdd, non ha avuto possibilità di assorbirli in altri luoghi se non nel luogo in cui è sempre vissuta. Domani voglio parlare con il mio amico oncologo e chiedere al marito della donna di fare delle analisi anch’egli. Voglio togliermi questo dannato tarlo dalla testa.»
Mario per più di una settimana si divise fra il campo la mattina e il capezzale della moglie al pomeriggio. La donna non tendeva a migliorare nonostante con la fine del ciclo mestruale fosse diminuita anche la febbre. Nessuno si prendeva la briga di dargli spiegazioni sul protrarsi della decenza della moglie, e il solo dottor Rega di tanto in tanto si faceva vedere e cercava di rassicurarlo senza però chiarirgli la situazione. Anzi chiedeva al fattore se avesse avuto le cartelle cliniche dal medico curante e se si fosse fatto le analisi del sangue e delle urine come gli aveva consigliato.
Ma l’umiltà con cui Mario chiedeva i documenti al suo medico di famiglia, e la sua innata riverenza verso qualsiasi “colletto bianco” non avevano portato a nessun risultato e l’uomo gli aveva anche risposto in malo modo quando il timido contadino aveva reiterato le sue richieste.
«Ma quale cartella clinica vuoi?» Rispose l’attempato dottore di paese che si preoccupava più della sua carriera di politico locale che non della salvaguardia dei suoi pazienti. «Tuo figlio aveva problemi di asma bronchiale da quando era nato e questo lo ha portato alla tomba. Devo avere in giro da qualche parte l’attestato di morte che ho redatto quando mi chiamarono per constatarne il decesso per cause naturali. In quanto a te non hai sintomi che giustificano la richiesta di tali analisi. Questi pivelli di medici ospedalieri credono che i soldi della Sanità pubblica possono essere buttati così impunemente?»
Quello che sia il medico di paese che il modesto lavoratore della terra non sapevano era che il benvoluto professore Rega aveva mobilitato un suo caro amico appartenente ad un gruppo di agguerriti ambientalisti, che si stava industriando per monitorare la zona ove era situato il podere di Mario. Dopo qualche settimana, da analisi condotte con la gascromatografia eseguita su alcuni campioni, l’equipe di difensori del territorio avevano scoperto che quella zona aveva una tossicità equivalente così alta da collocare quei terreni fra quelli interdetti alle attività umane. Presero alcuni campioni di acqua, ortaggi e latte delle pecore che pascolavano poco lontano e scoprirono che tutti i campioni erano contaminati con varie sostanze chimiche, e in modo maggiore da congeneri di idrocarburi aromatici policlorurati chiamati PCB diossina-simili.
La lontananza di quei luoghi da ogni centro industriale e la sua posizione poco ventilata, fece intuire immediatamente a Rega e agli ecologisti che la causa della presenza di diossine nella zona era dovuta all’interramento di fanghi tossici o all’inquinamento della falda freatica con cui i contadini della vallata irrigavano i campi. Non restò a loro altro da fare che mobilitare la Procura competente che aprì un’inchiesta per scoprire chi avesse commesso tale vile e spietato reato.
Ma il tutto venne presto insabbiato poiché il Giudice competente non ritenne validi gli elementi ricavati dal gruppo di ecologisti e mobilitò dei periti di sua fiducia per fare delle controanalisi che non evidenziarono l’alta tossicità dei primi esami.
Rega non fu per nulla felice di quell’esito e si mobilitò in prima persona recandosi dal Magistrato. I test fatti su Adele Ruocco erano fin troppo chiari ed evidenziavano varie patologie causate dall’assimilazione di cibi e bevande contaminate che avrebbero portato la donna alla morte nel giro di pochi anni. I sospetti del valido professionista erano che il figlio della coppia non fosse morto a causa dell’asma ma per un cancro ai polmoni o alla laringe. Egli sospettava che lo stesso Mario avesse qualche tumore alla prostata o alla vescica, in base alle risposte che il contadino gli aveva dato inerenti alle domande fatte sul suo stato di salute generale.
Il Magistrato lo ascoltò con il volto apparentemente attento ma con lo sguardo perduto in chissà quale lontano pensiero. Se Rega non fosse stato un esperto conoscitore dell’animo umano, avrebbe potuto credere che il profumatamente retribuito difensore delle norme giudiziarie fosse interessato a ciò che gli stava esponendo con tanto fervore e con tanta completa ed esaustiva documentazione. Quello che ricavò dall’incontro fu solo un vago cenno di assenso e una promessa di agire fatta a denti stretti e con gli occhi abbassati sui fogli. Come chi non avesse la forza di guardare il suo interlocutore negli occhi.
Deluso dal disinteresse neppure troppo nascosto dell’uomo, Rega tornò nella sua auto e prese un’altra copia del dossier Ruocco. Guardò assorto i pochi fogli, che in quel momento gli sembrarono più pesanti di un macigno, e decise di dirigersi da Angelo, il suo amico ecologista, nella sede della piccola associazione ONLUS che dirigeva. Dopo aver raccontato all’altro di come era stato trattato freddamente da Giudici e Procuratori, l’amico gli consigliò di prendere il dossier e recarsi insieme a lui nella stazione cittadina dei Carabinieri per presentare una regolare denuncia contro ignoti per danno ambientale. In questo modo se avessero trovato nuovi elementi avrebbero potuto allertare i militari che a loro volta potevano fare delle indagini ufficiali.
Il Maresciallo, comandante della caserma, ascoltò i due e sfogliò con una velocità degna di un recordman il fascicolo. Quando ebbero finito di esporre la loro versione dei fatti disse con un tono dispregiativo:
«Questo Mario Verza è solo un miserabile contadino, e magari la malattia della moglie è dovuta alla mancanza di igiene.»
«Per niente, Maresciallo. Queste patologie sono derivate da esposizione o ingerimento di sostanze contaminate provenienti da industrie metallurgiche o siderurgiche. E le analisi fatte dal signore qui presente con i mezzi forniti dalla sua associazione, sono molto eloquenti.»
«Come lo sono quelle fatte dai periti incaricati dal Giudice competente.» Ribatté il militare. «Tra le due tesi io credo in modo assoluto a quella ufficiale e non la prima fatta da privati.» Soggiunse alzandosi e decretando con quel gesto la fine dell’incontro.
«Ma almeno possiamo fare delle analisi nei dintorni della discarica poco lontana?» insisté Angelo. «Si trova in una proprietà privata vigilata giorno e notte e ci servirebbe un permesso per analizzare le acque nei dintorni per capire se il percolato abbia contaminato qualche pozza collegata ad un’eventuale falda freatica che passa sotto la vallata.»
«Conosco personalmente l’imprenditore titolare di quell’azienda e vi posso garantire che è una persona di estrema fiducia. Quando è stato scelto quel sito per realizzare la discarica e il centro di stoccaggio per rsu, una quindicina di anni fa, abbiamo fatto parte della commissione di vigilanza anche io e il dottore Rastelli, il medico di fiducia della famiglia Verza. Il nostro compito era di osservare che tutto fosse fatto come prescritto dalla ditta appaltatrice dei lavori che stilarono un resoconto completo delle varie opere realizzate che ho depositato personalmente presso gli uffici dell’Autorità di vigilanza regionale. Vi garantisco che tutta la zona è tuttora sicura e la causa della malattia di questa donna è da riscontrare nel modo di vivere malsano di quella famiglia.»
Non avendo più nulla da dire a quell’uomo che palesava con arroganza le proprie convinzioni, i due uscirono e si recarono sfiduciati in un bar per pensare con calma alla prossima mossa da fare. Angelo convinse Rega di andare da Mario e metterlo a conoscenza di ciò che avevano scoperto. Era lui che presto avrebbe perduto la moglie e che probabilmente per la stessa causa aveva visto morire il figlio, quindi era giusto che fosse lui a decidere chi denunciare.
Lo trovarono a lavorare nel suo campo. Stava seminando il trifoglio e i lupini per operare il sovescio con cui di tanto in tanto fertilizzava i suoi campi, usando i metodi tradizionali insegnatigli dai nonni, preferiti da lui alla concimazione chimica senza regole usata dagli altri contadini.
Non sapeva neppure perché si facesse quel tipo di lavorazione dura e faticosa, e fu contento quando Angelo gli spiegò che con il suo metodo tradizionale avrebbe avuto delle piante più forti e con tutti i minerali come l’azoto nitrico. Mentre con l’uso quasi assoluto di fertilizzanti chimici la differenza fra radici e piante non avrebbe consentito alle piante di nutrirsi di tutte le proprietà del suolo e sarebbero state molto più esposte ad attacchi da parte di funghi, muffe e parassiti, costringendo gli agricoltori a usare fitofarmaci e pesticidi.
Mario lo ascoltò con attenzione, e annuì quando l’ambientalista gli chiese se irrigasse con il pozzo artesiano con cui irrigavano anche gli altri contadini della vallata.
«Mario, è inutile una coltura biologica come la tua se l’acqua e l’aria sono inquinate. Tu mi dici che nel tuo campo usi come concime solo composti organici ricavati dai fanghi decontaminati della vicina discarica, ma se qualcuno ti inquina l’acqua con cui irrighi la tua insalata, oppure non ti fornisce concime organico completamente decontaminato da diossine, i prodotti che ricaverai dal tuo orto non saranno diversi da altri che sono stati coltivati in un suolo inquinato.»
Spiegarono tutta la faccenda che avevano supposto al povero uomo che ascoltava con le lacrime agli occhi. Sapere che la moglie avesse pochi anni di vita e che probabilmente anche lui avesse il cancro a causa di qualcuno che desiderava arricchirsi di più e di qualcun altro che doveva controllare e non aveva controllato, lo annientò. Ma a quella spietata gente non era bastato far ammalare i suoi cari, e se l’erano presa pure con quel campo che era tutto ciò che possedeva. Tutto il suo mondo era la sua famiglia e il suo piccolo podere e glielo avevano distrutto.
«Cosa posso fare?» Chiese con un sussurro che sembrò un lamento. «Io sono solo un piccolo contadino ritenuto da tutti un miserabile!»

sabato 11 settembre 2010


LACRIME GLOBALI(Anniversario dell’11 settembre)
Milioni di occhi,
magnetizzati dai vari palinsesti,
commossi si chiedono
come sia stato possibile quest’indimenticabile orrore.
E versano lacrime.
Lacrime, lacrime…
Strane le mie lacrime!
Non sgorgano solo per le vittime innocenti
dell’ultimo eclatante orrore
- anche se vorrebbero soffermarsi
per un attimo su ognuna di esse -
ma spaziano oltre chiedendosi
perché tutto questo!
Perché sono morti questi innocenti?
Viaggio sulle ali del dolore,
traversando gli oceani,
e penso ai tanti padri che,
nella ritorsione susseguita,
vedono i raccolti in fiamme e le greggi distrutte;
coscienti che ben presto i figli seguiranno la stessa sorte.
Piango per quei padri
che subiscono la mondiale rabbia
solo perché sono nati nella parte sbagliata del mondo,
e vengono liberati dagli oppressori con le serafiche bombe.
Piango…
Piango lacrime che ormai
non riescono a trovare un sol motivo per bloccarsi,
vedendo un mondo che si avvicina al nulla.
Piango,
piango lacrime che non hanno confini,
non hanno nazioni, non hanno colore.
Piango lacrime di rabbia nella consapevolezza che chiunque agirà,
sempre un innocente morirà…

giovedì 9 settembre 2010

SULO PE N’ORA - tentativo di canzone in napoletano, con traduzione in italiano, senza uno straccio di metrica musicale:)))


SULO PE N’ORA

Sì stat’a mia
sulo pe n’ora.
’O tiemp’ ‘e te dì
te voglio ancora,
e, senza pietà,
se chiusa chella porta.

Tu, tu nun può sapè
che fuoco m’appiccia
dint’a ‘stu core
‘o penziere ‘e t’avè;
che guerra ca faccio
cu ll’anema mia
se penzo ca te sto perdendo.

No, nun ‘o può capì
chi sì tu pe me.
Nun ‘o può sapè
che vo dì sta cu te
sulo pe n’ora.

Sulo pe n’ora,
te voless’astregnere
sulo pe n’ora;
e po’ che me mporta
se me ne more
si te pozzo chiamà
n’ata vota
“ammore mio!”

Sulo pe n’ora,
chiove o st’ ‘o sole,
è sera o matina,
i’ cammino senza capì
addò porta ‘sta via.
Maledetta malatia
ca m’he purtato a credere
ca fuss’a mia.
E mo c’aggio capito
che era tutta na fantasia,
me faccio piglià
d’ ‘a frenesia
‘e t’avè almeno pe n’ora.

Sulo pe n’ora,
te voglio ancora
sulo pe n’ora,
ammore mio,
tuorn’a esser’a mia
sulo pe n’ora…

Solo per un’ora

Sei stata mia
solo per un’ora.
Il tempo di dirti
ti voglio ancora,
e, senza pietà,
si è chiusa quella porta.
Tu, tu non puoi sapere
che fuoco arde
dentro il mio cuore
al pensiero di averti;
che guerra faccio
con la mia anima
se penso che ti sto perdendo.
No, non lo puoi capire
cosa sei tu per me.
Non puoi sapere
cosa vuol dire stare con te
solo per un’ora.
Solo per un’ora,
vorrei stringerti
solo per un’ora;
e poco m’importa
se dopo muoio
se posso chiamarti
ancora
“amore mio!”
Solo per un’ora,
piove o c’è il sole,
è sera o mattina,
cammino senza capire
dove mi porta questa via.
Maledetta malattia
che mi ha fatto credere
che tu fossi mia.
E adesso che ho capito
che era solo una fantasia,
mi faccio prendere
dalla smania
di averti almeno per un’ora.
Solo per un’ora,
ti voglio ancora
solo per un’ora,
amore mio,
torna ad essere mia
solo per un’ora…

MATTINO - diario -


MATTINO

Le prime luci dell’alba
mi guidano per il cammino
che il mondo mi ha ordinato di seguire,
senza chiedermi cosa mi piacesse:
cosa io volessi della mia vita.
Tutto scontato; tutto deciso!
Tutto irrimediabilmente programmato
e finalizzato in funzione di un benessere economico
che pochi di noi raggiungeranno,
mentre costerà – invece - la dannazione eterna
per tutti quelli che avranno sprecato
la propria vita inutilmente.
Ore, giorni e mesi
a perseguire un progetto
che non riguarda né l’amore né la vita,
ma solo l’effimero denaro che tutto compra:
anche il tempo.
Che tutto brucia, anche l’amore,
nella folle corsa fra due eternità,
dove siamo fantino e cavallo…
acqua e fuoco!

Vivo nella speranza che un giorno
possa permettermi di donare
qualche minuto del breve tempo
che ho a disposizione al mio desiderio d’amare,
e mi cullo nell’illusione che presto qualcuno o qualcosa
mi dia la possibilità di vivere come credo,
senza più dover ritagliare un misero spazio
della triste e vuota giornata
- piena di tanta falsità e inutilità -
ad un sentimento più vero
di quello che non sia la ricerca della sopravvivenza,
in un mondo in cui anche le sensazioni
sono diritto esclusivo di una casta privilegiata.

mercoledì 8 settembre 2010

Scusa - poesia in napoletano con riedizione rivista in italiano.


SCUSA

Pecché nun rispunne?
Te costa tanto sentì
chello che te voglio dì?
‘O saccio ch’è colpa mia,
nun so’ perfetto,
ma neanche na bestia
ca nun merita perdono,
nun merita e te potè dì:
scusa…
Scusa ammore,
stai pavanno
pe avè creduto
a nu sogno non tuo.
He chiuse ll’uocchie
prendenno ‘a mano
e n’omme che t’ha deluso.
E mo che vurria dì
ca senz’ ‘e te preferisco murì,
me chiud’ ‘a porta nfaccia
e nun permitte a ‘ste bbraccia
‘e t’astregnere forte,
accussì forte
‘a nasconnere
ogne dolore
ca forz’ ‘e ‘st’ammore.
Te prego rispunne.
Nun me lassà
cu ‘o turmiente
‘e ‘sto telefono spento.
Soffro già troppo
pe avè creduto
e me cagnà ‘o destino,
senza penzà
che fusse stata tu a patì
pe ‘st’assurda fantasia.
E mo che te vurria dì
che senz’ ‘e te
me sente e murì,
‘sto silenzio tuio
sempe e cchiù me fa suffrì.

SCUSA


Perché non rispondi?
Ti costa tanto ascoltare
chi ti dice che in amore
si può sbagliare?
Lo so che è colpa mia!
Non sono perfetto,
ma neanche una bestia
che non merita perdono.
Non merita di dirti: scusa…

Scusa amor mio, stai pagando
per aver creduto in un sogno non tuo.
Hai chiuso gli occhi
prendendo la mano
di un uomo che ti ha deluso.

E adesso che vorrei dire
che senza di te preferisco morire,
mi chiudi la porta in faccia
e non permetti alle mie braccia
di creare uno scudo d’amore
con cui sconfiggere anche il dolore.

Ti prego rispondi!
Non lasciarmi con il tormento
che mi provoca il tuo telefonino spento.

Soffro già troppo per aver pensato
di cambiare il destino senza riflettere
che fossi tu a soffrire
per quest’assurda fantasia.
E il tuo silenzio aumenta
le fiamme del rimorso e mi nega
il lieve sollievo che mi darebbe
nel chiederti scusa…

domenica 5 settembre 2010

Aisha -racconto che cerca di evidenziare cosa vuol dire a volte seguire delle assurde tradizioni -


Aisha
di Klem D’Avino



I
La bella giornata di sole, dopo alcune giornate di pioggia, era stata attesa con impazienza da Aisha. Era giorno di mercato, e con la scusa di dedicarsi al cucito, la ragazza sedette su una delle panchine del giardino situato dietro l’abitazione e attese che la madre e le sorelle andassero a sbrigare alcune faccende in casa.
Quel luogo era recintato con un alto muro per permettere alle donne della casa di poter sedere a chiacchierare fra loro senza velo, lontane da sguardi indiscreti, ma Aisha aveva scoperto che dai rami di un albero di cedri che superava il muro, poteva osservare di nascosto la gente arrivare dai campi per vendere le loro mercanzie.
Il vento le scompigliava i capelli color ebano, accarezzando il viso alabastrino. Strinse l’ampia tunica intorno alla vita per essere più agevolata nella salita, mostrando un corpo sinuoso e armonico. Nonostante le sue curve fossero quelle acerbe di un’adolescente, l’innata sensualità tipicamente mediterranea la faceva sembrare più matura dei suoi quattordici anni.
.
«Aisha, dove sei?» Chiamò la madre.
La ragazza fu veloce e in pochi secondi scese dall’albero e riprese il suo lavoro di cucito. «Eccomi, mamma!» Rispose sorridendo. Il suo sorriso riusciva a farla sembrare ancora più bella, e la madre la guardò con orgoglioso amore.
«Come ti sei fatta bella, piccola! Stasera alla festa in onore del cugino Oman tutte le altre donne saranno invidiose della tua bellezza.»
«Non dire così, mamma! Mi fai arrossire. Parlami piuttosto del cugino di papà. Non l’ho mai visto.»
«Questi ultimi anni è stato in guerra, dove si è distinto fra i tanti combattenti, per il grande onore di Allah misericordioso. Con lui stasera verranno anche importanti politici e religiosi, per tributargli l’onore che gli spetta per la grande vittoria che ha riportato in battaglia. Sarà presente anche il famoso sceicco Bedir, padrone di quasi tutta la città.»
La madre era appena rientrata in casa quando Aisha poggiò sulla sedia il piccolo telaio e risalì velocemente sul suo albero. Nessuna festa poteva uguagliare il piacere che la ragazzina provava nel vedere la gente vivere libera. La casa dove viveva, con il passare degli anni assomigliava sempre di più a una dorata prigione. Il padre faceva uscire di casa le tre figlie e la moglie solo quando non era possibile fare altrimenti, e si preoccupava che, oltre allo chador, portassero il velo affinché nessuno potesse guardarle.
Aisha si recava nella moschea con i suoi familiari il venerdì. Solo nella musalla le era permesso di rivolgersi a chiunque, partecipando pienamente a tutte le attività comunitarie e venendo trattata con cordialità anche dagli adulti.
Le uniche cose che le donne della sua famiglia conoscevano del mondo erano quelle che raccontavano le altre parenti, anche loro limitate nella libertà fisica. La televisione e la radio venivano accese solo in presenza del padre e dei figli maschi che facevano assistere alle donne solo alcuni determinati programmi.
Ecco perché osservare le persone dall’alto del giardino, facendo attenzione che nessuno la vedesse, era per la ragazza un’emozione incredibile, superiore a quella che poteva rappresentare la sua partecipazione ad una festa dove gli uomini parlavano e bevevano, mentre le loro donne erano rilegate con i bambini in una stanza secondaria.
Come programmato, in serata le quattro donne dell’agiata famiglia si recarono alla festa organizzata per onorare il famoso consanguineo. Tutta la famiglia indossava vesti di tessuto damascato e di seta ricamata.
La bella Aisha, coperta di veli, emanava un fascino misterioso dalla sua persona, che andava al di là della semplice bellezza. I suoi bellissimi occhi scuri, valorizzati dal trucco, avevano avuto in dono dalla natura due iridi altrettanto intense. Il segreto della loro bellezza non stava solo nell'intensità del colore, ma anche nella profondità dello sguardo, che sembrava carezzare le persone e le cose ..
Tutti poterono ammirare l’opulenza di suo padre, che fu accolto dal festeggiato, dagli anziani e dallo sceicco con l’onore che meritava.
Le donne si spostarono in una sala laterale, insieme con i piccoli, mentre nella grande sala gli uomini brindavano e festeggiavano. Aisha si annoiava ad ascoltare le altre donne che ripetevano i soliti discorsi e si avvicinò alla finestra che dava sul retro della casa. Notò quasi subito che le imposte erano state lasciate aperte a causa del gran caldo. Solo una pesante tenda separava la sala dalla vista del cortile posteriore della casa.
Spinta dalla curiosità, e approfittando del fatto che il gruppo fosse assorto ad ascoltare un’anziana, spostò di qualche centimetro il drappo e si mise ad osservare la gente nel cortile.
Fu subito attratta dalla figura atletica di un ufficiale che dava gli ordini ad alcuni suoi commilitoni, che scattarono sugli attenti e l’ubbidirono all’istante. Rimasto solo il militare si accese una sigaretta e sedette sulla scalinata a pochi metri dalla finestra.
«Com’è bello!» Pensò Aisha ammirandone il profilo. Il soldato era molto giovane, e l’espressione sognante con cui guardava il cielo stellato lo rendeva più simile ad un ragazzo che a un uomo.
Nonostante fosse assorto dai suoi pensieri, percepì di essere osservato e si voltò verso la finestra, vedendo il volto di Aisha tra lo stipite e la tenda.
«Sei una visione che mi manda Allah?» Sussurrò sbalordito. Mai aveva visto un volto così bello. Mai aveva ammirato occhi così intensi e labbra così sensuali.
La ragazza sorrise a quel complimento, ma subito abbassò la tenda per paura che qualche donna potesse scoprirla mentre un uomo che non fosse suo parente la guardava senza velo. Si poggiò alla parete e respirò profondamente con la speranza che il fuoco che si era acceso nello stomaco e sulle gote non venisse notato da nessuno.
Già da quel momento presagì che il protagonista dei suoi sogni, il principe vestito come gli eroi antichi che andava a liberarla sul suo cavallo bianco, sarebbe stato sostituito dal giovane ufficiale.
Abel era rimasto senza parole. Il suo cuore si era fermato per l’emozione quando quella stupenda ragazza gli aveva sorriso. Le Uri del Paradiso di Maometto dovevano avere la stessa pelle di porcellana, gli stessi occhi da cerbiatta.
Mai amore fu più fulminante di quello che l’aveva invaso.
Abel era giovane, ma aveva dimostrato il suo valore sin da ragazzo. Per questo Oman, il suo comandante, gli aveva chiesto di mettersi al comando del drappello preposto alla difesa della sua casa e dei suoi ospiti. Sapeva che quella finestra comunicava con la sala dove stavano le donne, e fu felicemente intrigato da quello che era successo. Con la scusa di dover controllare la porta d’ingresso, attese che gli ospiti uscissero per cercare di individuare la ragazza dal viso angelico.
Fu il colore dello chador che gliela fece notare, tra la madre e una sorella maggiore. E se non fosse stato per quell’elemento, lui l’avrebbe notata ugualmente per lo sguardo furtivo che la ragazza gli aveva lanciato. Quegli occhi profondi e immensi come un’oasi del deserto, anche se visti per pochi istanti, non potevano essere più dimenticati.
«Chi è quell’uomo.» Chiese Abel al suo comandante, che aveva appena salutato il padre di Aisha.
«È mio cugino Kaled, un ricco mercante, uno dei nostri più importanti finanziatori. Grazie alle munizioni che ci ha donato, abbiamo vinto l’ultima battaglia.
Senza pensare a cosa facesse, Abel trascorse quasi tutta la sua licenza intorno alla casa di Aisha, nella speranza di vederla almeno passare con la solita scorta che imponevano i capi famiglia alle loro congiunte. Ma fu un’attesa inutile. Il giovane se ne stava andando quando notò un leggero movimento tra i rami dell’albero di cedri che si trovava alle spalle della grande casa. Fu con grande sorpresa che vide fra le foglie il dolce viso di Aisha. Era senza velo, con i lunghi capelli raccolti in una grossa treccia.
Il cuore del ragazzo stava per esplodere per l’immensa ed insperata felicità.
Se non avesse avuto il timore di comprometterla se qualcuno l’avesse scoperto, sarebbe saltato sul muro per parlare con lei. La capacità di trovare una valida soluzione all’istante, tipica del soldato di professione, gli fece notare che il tetto della casa a fianco del giardino era quasi della stessa altezza del muro. Di corsa lo raggirò e, senza farsi vedere da nessuno, in pochi minuti raggiunse il lastrico solare a qualche metro di distanza dai rami del cedro, dove si trovava la ragazza.
La timida Aisha lanciò un piccolo urlo di sorpresa, vedendo apparire la sua testa oltre il solaio. Ma la gioia di averlo rivisto era così grande che, nonostante fosse arrossita e avesse abbassato gli occhi, non scese dall’albero e attese che lui le parlasse.
Ebbero così la possibilità di conoscersi e di consolidare il fulmineo amore che era nato nei loro cuori. Abel, approfittando dell’affetto che Oman nutriva per lui, gli confidò di essere innamorato dell’ultimogenita di Kaled. Gli domandò di presentare la sua richiesta di matrimonio al padre della ragazza.
Oman, sapendo che il suo giovane subalterno era di umili origini e aveva come unico sostentamento la sua paga da soldato, cercò di dissuaderlo.
«Ti rendi conto che Kaled come dono nuziale pretenderà una dote che neppure io potrei pagare? Togliti quest’idea dalla testa e tieniti pronto a partire. Ho anticipato la nostra partenza per domani e dobbiamo organizzarci subito!.»
Nel cuore del ragazzo scese la tristezza, che si amplificò a causa delle lacrime di Aisha quando la sera gli raccontò dell’esito del suo dialogo con Oman. Si promisero eterno amore. Le loro mani si toccarono per la prima volta quando Abel promise che avrebbe fatto il possibile per guadagnare i soldi necessari per la dote e Aisha gli giurò che mai avrebbe amato nessun altro.

II
La festa che era sempre stata considerata di buon augurio da Aisha, poiché le aveva permesso di conoscere il suo innamorato, sarebbe stata invece promotrice di sventura.
Cadigia, l’anziana che tutte le donne ascoltavano con attenzione nella sala, era la sorella dello sceicco. Da quando era rimasta vedova, era ritornata a vivere nell’immenso palazzo dell’amato fratello.
La donna si era subito accorta di quanto fosse bella Aisha. Ne parlò al famoso fratello, che in precedenza l’aveva incaricata di cercargli una donna di buona famiglia da prendere come quarta moglie.
«Tra tutte le appartenenti delle famiglie più in vista della città, solo Aisha, la figlia di Kaled, ha tutti i requisiti per diventare tua moglie, fratello mio. È giovane, bella e proviene da un’onorata famiglia.»
«Aisha..» sussurrò il grasso sceicco sessantenne. «Il nome dell’ultima moglie del Profeta. Sarà di sicuro un buon auspicio, sorella. E il nome promette di regalare nuova linfa a me e alla mia casa.»
Grazie a quella rivelazione, lo sceicco Bedir mandò da Kaled dei testimoni con la richiesta di matrimonio. Essi avevano anche il compito di conoscere la dote che il padre della ragazza pretendeva per ottenere la mano della figlia.
Il mercante accolse con il dovuto rispetto gli ospiti illustri: uno dei due era un imam molto conosciuto e l’altro uno dei più influenti emiri dello Stato.
«Miei onorati signori, sono lusingato dalla richiesta con cui mi onora lo sceicco, ma la mia piccola Aisha, nonostante abbia già l’età per sposarsi, è ancora caratterialmente una bambina e non è all’altezza di diventare la moglie di un uomo tanto saggio e potente.»
«Alla sua età le donne già sono madri!» Rispose indignato l’emiro, di poco più anziano del suo amico sceicco. «Un tuo rifiuto porterebbe discordia tra te e il nostro potente signore. Non dimenticare che tu rifornisci di vari prodotti le tante aziende dello sceicco, che ti onora della sua fiducia. Se si dovesse incrinare questo rapporto, non sarebbe più possibile nessun accordo tra di voi.»
Dopo questa minaccia caddero le riserve che Kaled aveva per la differenza di età dei due e diede il suo consenso. Fedele alle tradizioni, nominò come testimone un suo parente che lavorava per lui per contrattare la dote della figlia con i due emissari. La contrattazione fu fatta all’istante poiché lo sceicco, fiducioso dell’opinione della sorella, aveva ordinato loro di accettare qualsiasi cifra..
Quando gli ospiti uscirono, Kaled chiamò la moglie Fatima ed Aisha, e comunicò loro il suo consenso alla richiesta di matrimonio dello sceicco. Fatima abbassò umilmente la testa e si preparò a spiegare alla figlia quali sarebbero stati i suoi doveri, mentre la fanciulla rimase impietrita.
«Mio buon padre» Cercò di protestare con le lacrime agli occhi. «Lo sceicco è molto anziano. Non puoi chiedermi di sposarlo!»
«Tu farai ciò che io ti ho detto. Ho dato già la mia parola e non la infrangerei neppure sotto tortura. Preparatevi, perché la data del matrimonio è prossima.»
Qualunque altra parola avrebbe inasprito l’uomo e non avrebbe cambiato la sua decisione. La moglie, cosciente di ciò, prese la figlia per la mano e le proibì di obiettare ulteriormente, trascinandola via.
«Figlia mia, ormai tuo padre ha promesso, non si può fare più nulla. Devi prepararti ad essere una buona moglie per lo sceicco, che sarà tuo marito ed anche padrone della tua vita. Se sarà scontenta di te, ti potrà scacciare riempiendoti di disonore, o anche farti del male fisico.»
«Ma io non lo amo, madre mia. Non posso sposare un uomo più vecchio di mio padre!»
«L’amore esiste solo nelle fiabe e l’età avanzata rende l’uomo saggio. Sii una buona moglie e una brava madre. Sono le uniche cose che la società ti chiede.»
Le lacrime versate da Aisha avrebbero fatto impietosire chiunque. Ma ottennero come unico risultato so di far irritare Kaled che, vedendo la figlia appassire ogni giorno di più, come un fiore reciso dal suo stelo, temette che Bedir la scacciasse dopo il matrimonio, riprendendosi la sua dote principesca e riempiendo lui e la sua famiglia di vergogna. L’uomo non si era reso conto di quanto fosse bella sua figlia. Lo sceicco ne rimase così affascinato da pretendere che subito dopo il rito nuziale la ragazza fosse preparata e accompagnata nella sua stanza da letto.
La servitù preparò accuratamente la ragazza per la sua prima notte di nozze, con annessa prova della sua verginità. Dopo averla lavata e profumata, le portarono preziosi vestiti da indossare. Un’ampia gonna turchese, il corpetto finemente decorato con perline, i preziosi orecchini di zaffiro, la collane, bracciali e bindi sulla fronte, facevano di Aisha una splendida odalisca.
Aisha piangeva sommessamente. Non riusciva a muoversi sopra i cuscini, dove due serve l’avevano adagiata. Lo sceicco la chiamò e le chiese di avvicinarsi. Ma lei era come paralizzata. L’uomo allora si alzò, la prese per un braccio e la scaraventò con forza sul letto. Fu così che Aisha da bambina divenne donna. Se non impazzì di dolore per quel trattamento brutale fu solo grazie al ricordo del viso sorridente di Abel.
Ciò che subì la povera ragazzina quella sera era solo l’inizio di una violenza che il saggio, potente e giusto sceicco perpetrò quotidianamente sul suo povero corpo. Stanco di quelli che definiva stupidi piagnistei, incominciò a malmenarla e a trattarla con sempre più sadica aggressività.
«Fin quando non imparerai a ubbidire a tuo marito e soddisfarlo in ogni suo desiderio, lui si sentirà in diritto di picchiarti e possederti come sta facendo.» Le disse la madre quando Aisha le si era confidata, mostrandole i numerosi ematomi e le cicatrici sul viso e sul corpo. Ma si rese amaramente conto di avere sperato inutilmente di trovare solidarietà in colei che l’aveva generata per una vita di fatto diventata un incubo infinito. Era troppo abituata a ubbidire passiva al marito, e non concepiva altri modi di vivere.
«Non ci riesco, madre. Mi fa orrore quell’uomo. E provo per lui solo disgusto.» Protestò tra le lacrime.
«È tuo marito, non ti permettere di parlare così!» La rimproverò la donna. «Se qualcuno ti sentisse e glielo riferisse, per te sarebbe la fine. Ti scaccerà come un cane con la rogna.»
«Credi che essere ripudiata sia un destino peggiore di quello che mi è stato assegnato? Anche la morte mi parrebbe una felice soluzione a confronto di questa vita da incubo che devo sopportare.» Singhiozzò.
«Tuo marito è saggio e benvoluto da tutti. Ogni cosa lui faccia verrà giustificato sempre e tu accusata di non essere una buona moglie.»
«È definito un uomo eccellente dagli uomini come mio padre! Per me è solo un vecchio maiale libidinoso.» Urlò sempre tra le lacrime la ragazza.
«Attenta a quello che dici. Per meno di questo delle mogli sono state bastonate dai mariti fino a morirne. Pensa a tua sorella maggiore. Ha sposato un uomo pressappoco dell’età di tuo marito. È gentile e ubbidiente e lo accontenta in tutto. E lui è sempre affettuoso con la giovane e bella moglie.»
«Solo le prostitute fanno questo con gli uomini che non amano! Io odio quell’uomo che ogni notte abusa di me nei più sadici dei modi. Questo non è amore o rapporto coniugale. Questa è violenza carnale!» Protestò con rabbia Aisha.
Proprio in quell’istante entrò il padre che ascoltò inorridito quelle parole.
«Come ti permetti di parlare così di tuo marito?» Si avvicinò e con uno schiaffo la scaraventò sul pavimento. «Piccola sgualdrina, non sei degna dell’onore che ti ha fatto quell’uomo sposandoti, e farà bene a insegnarti il rispetto con un bastone!.»
«Per te è giusto che mi violenti tutte le notti?» Rispose Aisha con la forza della disperazione, timorosa di essere colpita da un uomo, suo padre, che di fatto non era migliore del suo aguzzino.
«È tuo marito e può fare tutto quello che vuole di te. Si è più volte lamentato che tu sei disubbidiente. Sappi che se per caso dovesse ripudiarti, questa casa è chiusa per te.»


III
La ragazza sperimentò che anche quando si vive l’angoscia più grande della propria vita il tempo continua inesorabile il suo monotono cammino. Aisha era sempre più triste, e nessuno l’aveva mai vista sorridere da quando era andata a vivere nella casa dello sceicco.
Con il passare dei mesi e poi degli anni aveva cambiato atteggiamento. Invece di ribellarsi e cercare di sottrarsi a quello che tutti definivano un dovere coniugale, attendeva immobile che l’uomo finisse di usare il suo corpo, si alzava e a capo chino usciva dalla stanza, senza che lui potesse vedere la disperazione sul suo volto. L’unica cosa che aveva ottenuto con quell’atteggiamento remissivo era che lui non la picchiava più né la prendeva con violenza, confondendo la sua inerzia per un tacito consenso.
Ma dentro di lei la giovane era come morta. Non provava più nulla, né rabbia né dolore. Il nome postole alla nascita significava vivere, ma lei desiderava solo morire.
Tutti erano dispiaciuti che lei non desse un figlio allo sceicco, senza sapere che era il suo stato psichico debilitato a far sì che lei non restasse incinta e che, la forte depressione, presto l’avrebbe portata al suicidio o alla pazzia.
Per non affliggere la madre con il suo sconforto, non andava a trovarla più. Rifiutava di vedere sia il padre che i fratelli quando venivano a fare visita al potente marito. I suoi parenti l’avevano venduta. Non dovevano fare altro che approfittare della situazione per chiedere altri favori all’uomo sadico e meschino che le avevano imposto come marito.
Il vento della guerra e della disperazione si stava avvicinando ai confini della regione controllata dallo sceicco Bedir. Ciò causò molte preoccupazioni all’uomo e gioia ad Aisha, poiché spesso gli impegni politici tenevano il consorte lontano da casa per settimane. La sua era pur sempre una vita da prigioniera, ma almeno non doveva appagare i desideri sessuali del marito.
Il nemico si avvicinava inesorabilmente, e i migliori reparti dell’esercito locale furono richiamati in difesa della capitale. Con essi arrivò anche il battaglione comandato da Oman, di cui faceva parte l’ormai famoso ufficiale Abel.
Dalla sua postazione sul confine, il giovane ufficiale aveva saputo del matrimonio della sua amata, e come tanti innamorati aveva sofferto le pene dell’inferno. Con il tempo si era dovuto rassegnare all’inevitabile e, durante una licenza, si era sposato con una sua lontana cugina, la cui dote nuziale era alla sua portata.
Pur con la possibilità di una guerra imminente, Abel aveva accolto con piacere l’incarico di difendere le mura cittadine, poiché avrebbe avuto spesso la possibilità di tornare a casa e stare con la moglie e il figlio. In quegli anni aveva visto la famiglia solo durante brevi e rare licenze, e qualsiasi cambiamento era ben accetto.
Dovendo predisporre i suoi uomini per la difesa della città, Oman scelse Abel che era il migliore degli ufficiali suoi sottoposti per vigilare il palazzo residenziale dello sceicco. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quella scelta avrebbe presentato dei risvolti inaspettati.
Grazie al suo ruolo di responsabile alla sicurezza, Abel aveva libero ingresso in tutte le stanze del palazzo - eccetto quelle riservate alle mogli del padrone di casa. Anche le vie di accesso, i corridoi e i giardini venivano controllati ogni giorno di persona dal diligente ufficiale. Fu in uno di questi giri di ispezione che l’uomo incrociò una donna coperta di veli che, come lo vide, si bloccò.
L’intento di Abel era quello di salutarla con un inchino e procedere dritto, per evitare di offendere l’illustre padrone di casa, importunando una parente. Ma lo sguardo di lei paralizzò anche lui. Riconobbe all’istante i grandi e luminosi occhi dell’unica donna che avesse mai amato.
«Aisha!» Sussurrò.
La ragazza non seppe trattenersi, lasciò cadere il velo, scoprendo il suo stupendo viso, e con le lacrime agli occhi corse ad abbracciarlo.
L’abbracciò durò solo pochi istanti, perché sentirono un rumore nella stanza vicina. Ritornarono sui loro passi, timorosi che qualcuno potesse leggere sui loro volti i sentimenti che provavano. Le lacrime non smettevano di scorrere dagli occhi arrossati della giovane donna, ma stavolta erano di felicità per il ritrovato amore. Anche per Abel l’incontro era stato sconvolgente. Ardeva dal desiderio di rivederla. Per troppi anni l’aveva desiderata, per troppi anni aveva sofferto per averla perduta.
Senza riflettere alle conseguenze per le loro azioni, approfittarono di una notte in cui lo sceicco era impegnato in uno dei tanti consigli di Stato. Si diedero appuntamento nel giardino attiguo alle stanze delle donne e si amarono con passione sotto il cielo stellato.
L’impeto con cui si amarono fece dimenticare loro ogni prudenza, e più di una donna, insospettita dai rumori, si accorse dei giovani amanti.
Lo sceicco fu informato del tradimento subito dopo il suo ritorno a casa.
Chiamò in gran segreto il suo colonnello e lo fece partecipe dell’accaduto. Il famoso militare si dichiarò dispiaciuto e destituì il suo ufficiale, e lo avvisò che avrebbe dovuto subire un processo.
Ma nessun giudice poté condannarlo poiché fu trovato il mattino dopo suicida nella sua stanza. Si era ucciso con la sua pistola di ordinanza, lasciando solo due righe di scusa alla moglie e al figlio. Alla vergogna della cacciata dall’esercito per ignominia aveva preferito la morte.
Per Aisha il percorso fu più lungo e doloroso. Ripudiata ufficialmente dal marito, fu tratta in prigione come l’ultima malfattrice, dove fu torturata e violentata a turno da chiunque volesse abusare di quella bellissima ragazza di soli diciassette anni. Venne processata con l’accusa di adulterio e, secondo la shari’a, fu condannata a morte mediante lapidazione.
Provenendo da una ricca famiglia, i parenti potevano intervenire in sua difesa presso il muftì, prima che quest’ultimo si pronunciasse per la sentenza definitiva, facendo convertire la pena con qualche anno di carcere.
Non solo il padre dichiarò di averla diseredata e di vergognarsi di essere stato parente di un’adultera, ma fu il primo a lanciare la pietra contro il suo stesso sangue.

venerdì 3 settembre 2010

NON SARAI MAI UN SEMPLICE RICORDO.


NON SARAI MAI UN SEMPLICE RICORDO.

Sento il rumore dei tuoi passi:
o sono i battiti del mio cuore?
Dimentico le poche certezze
che mi erano compagne
e penso alla vita
senza la brezza del vento
a carezzarmi la pelle.
Sono vivo
ma non me ne accorgo.
Forse perché sono morto
e insisto a voler vivere;
ed è ora che io sparisca
attraverso il fumo del tempo,
raggiungendo il desolato mondo
delle anime inquiete.
Nessun respiro di passione,
né sguardo innamorato
porterò nella mia valigia vuota.
Sei stata una presenza troppo intensa
per rilegarti nel fiume dei ricordi
– ove c’è troppa melma e non meriti di stare
per la purezza del tuo essere –
e il pensiero di te
sarà nel mio cuore sempre vivo,
sempre vero.