sabato 11 dicembre 2010

I CLASSICI



I CLASSICI
La BBC afferma che la maggior parte delle persone ha letto solo 6 dei 100 libri presenti nella seguente lista.

Istruzioni: Copia questo messaggio nelle tue note. Metti in neretto i libri che hai letto interamente e in corsivo quelli che hai iniziato ma non hai finito. "Tagga" i tuoi amici appassionati lettori e anche me, così posso vedere il tuo risultato.


1 Orgoglio e Pregiudizio – Jane Austen
2 Il Signore degli Anelli – JRR Tolkien
3 Il Profeta - Kahlil Gibran
4 Harry Potter – JK Rowling
5 Se questo è un uomo - Primo Levi
6 La Bibbia
7 Cime Tempestose – Emily Bronte
8 1984 – George Orwell
9 I Promessi Sposi – Alessandro Manzoni
10 La Divina Commedia – Dante Alighieri
11 Piccole Donne – Louisa M Alcott
12 Lessico Familiare – Natalia Ginzburg
13 Comma 22 – Joseph Heller
14. L'opera completa di Shakespeare
15 Il Giardino dei Finzi Contini - Giorgio Bassani
16 Lo Hobbit – JRR Tolkien
17 Il Nome della Rosa - Umberto Eco
18 Il Gattopardo - Tomasi di Lampedusa
19 Il Processo – Franz Kafka
20 Le Affinità Elettive - Goethe
21 Via col Vento – Margaret Mitchell
22 Il Grande Gatsby – F Scott Fitzgerald
23 Bleak House – Charles Dickens
24 Guerra e Pace – Lev Tolstoj
25 Guida Galattica per Autostoppisti – Douglas Adams
26 Brideshead Revisited – Evelyn Waugh
27 Delitto e Castigo– Fyodor Dostoevskj
28 Odissea - Omero

29 Alice nel Paese delle Meraviglie – Lewis Carroll
30 L'insostenibile leggerezza dell'essere - Milan Kundera
31 Anna Karenina – Leo Tolstoj
32 David Copperfield – Charles Dickens
33 Le Cronache di Narnia – CS Lewis
34 Emma – Jane Austen
35 Cuore – Edmondo de Amicis
36 La Coscienza di Zeno – Italo Svevo
37 Il Cacciatore di Aquiloni – Khaled Hosseini
38 Il Mandolino del Capitano Corelli – Louis De Berniere
39 Memorie di una Geisha – Arthur Golden
40 Winnie the Pooh – AA Milne
41 La Fattoria degli Animali – George Orwell
42 Il Codice da Vinci – Dan Brown
43 Cento Anni di Solitudine – Gabriel Garcia Marquez
44 Il Barone Rampante – Italo Calvino

45 Gli Indifferenti – Alberto Moravia
46 Memorie di Adriano – Marguerite Yourcenar
47 I Malavoglia - Giovanni Verga
48 Il Fu Mattia Pascal – Luigi Pirandello
49 Il Signore delle Mosche – William Golding
50 Cristo si è fermato ad Eboli - Carlo Levi
51 vita di PI – Yann Martel
52 Il Vecchio e il Mare - Ernest Hemingway
53 Don Chisciotte della Mancia – Cervantes
54 I Dolori del Giovane Werther – J. W. Goethe
55 Le Avventure di Pinocchio – Collodi
56 L'ombra del vento – Carlos Ruiz Zafon
57 Siddharta - Hermann Hesse
58 Brave New World – Aldous Huxley
59 Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte – Mark Haddon
60 L'Amore ai Tempi del Colera – Gabriel Garcia Marquez
61 Uomini e topi – John Steinbeck
62 Lolita – Vladimir Nabokov
63 Il Commissario Maigret – George Simenon
64 Amabili resti – Alice Sebold
65 Il Conte di Monte Cristo – Alexandre Dumas
66 Sulla Strada – Jack Kerouac
67 La luna e i Falò - Cesare Pavese
68 Il Diario di Bridget Jones – Helen Fielding
69 Midnight’s Children – Salman Rushdie
70 Moby Dick – Herman Melville
71 Oliver Twist – Charles Dickens
72 Dracula – Bram Stoker
73 Tre Uomini in Barca - Jerome K. Jerome
74 Notizie da un'isoletta – Bill Bryson
75 Ulisse – James Joyce
76 I Buddenbroock – Thomas Mann
77 Il buio oltre la siepe - Harper Lee
78 Germinal – Emile Zola
79 La fiera della vanità – William Makepeace Thackeray
80 Possession – AS Byatt
81 Racconto di Natale – Charles Dickens
82 Il Ritratto di Dorian Gray - Oscar Wilde
83 Il Colore Viola – Alice Walker
84 The Remains of the Day – Kazuo Ishiguro
85 Madame Bovary – Gustave Flaubert
86 A Fine Balance – Rohinton Mistry
87 La tela di Carlotta – EB White
88 Il Rosso e il Nero - Stendhal
89 Le Avventure di Sherlock Holmes – Sir Arthur Conan Doyle
90 The Faraway Tree Collection – Enid Blyton
91 Cuore di tenebra – Joseph Conrad
92 Il Piccolo Principe– Antoine De Saint-Exupery
93 The Wasp Factory – Iain Banks
94 Niente di nuovo sul fronte occidentale - Remarque
95 Un Uomo - Oriana Fallaci
96 Il Giovane Holden - Salinger
97 I Tre Moschettieri – Alexandre Dumas
98 Amleto – William Shakespeare
99 Charlie and the Chocolate Factory – Roald Dahl
100 I Miserabili – Victor Hugo

mercoledì 8 dicembre 2010

SCRITTURA A SUD


SCRITTURA A SUD
Arte, spettacolo e cultura nel rispetto delle tradizioni del nostro Sud.

Gentilissimi,
Il giorno 10 dicembre, alle 18,30, presso il Teatro Comunale di Palma Campania, Napoli,
la Michelangelo 1915 editore, nella serata clou della kermesse "Scrittura a Sud
presenta:
Maledetto cuore
romanzo scritto da Antonella Iannò e Klem D'Avino,
edito da Akkuaria editrice.
Interverranno le autorità e alcuni esponenti di spicco delle Istituzioni, nonché personaggi noti del mondo della scrittura, dell'arte e dello spettacolo.
La serata sarà divisa in due parti; la prima sarà prettamente dedicata alla presentazione del romanzo, e dopo gli interventi del Sindaco Vincenzo Carbone e dell’Assessore alle Politiche giovanili, avv. Filippo Carrella, la moderatrice d.ssa Rossella Storno Boccia, giornalista de “Il Pappagallo” introdurrà i seguenti interventi:
d.ssa Vera Ambra – Presidente Associazione culturale Akkuaria
(Klem D’Avino e la scrittura)
- intermezzo poetico cantato e recitato-
d.ssa Costanza Pocechini – terapista e scrittrice
(La psicologia nella scrittura)
prof. P. Gerardo Santella – Direttore editoriale Michelangelo 1915
(recensione di Maledetto Cuore)
d.ssa Livia de Pietro – critica letteraria e recensitrice
(Maledetto cuore come strumento didattico)
Klem – D’Avino – autore –
(concetti strutturali del romanzo Maledetto cuore)
Seconda parte
Per la seconda parte , grazie all’illustre presenza del dr Ennio Fo, direttore della rivista La voce del Vesuvio, e giornalista dell’emittente televisiva Tele A, alla partecipazione di persone dello spettacolo come il cantante Nino Forte, il direttore di Televesuviana prof. Antonio Basilicata ed altri artisti localmente conosciuti, la serata si animerà con intermezzi musicali ed interventi artistici e culturali dove anche il pubblico diventerà protagonista.
Cultura e spettacolo a braccetto per rendere indimenticabile la serata e dimostrare per l’ennesima volta che il Sud è vivo!

mercoledì 3 novembre 2010

SCRIVO LA VITA!


SCRIVO LA VITA!

Sorridente e maliziosa,
mi chiedi di scriverti
poesie d’amore;
come una volta.

Ci provo, ma non ci riesco.
Ho conosciuto troppo a fondo
il latente animo della gente
per concedermi la pace
di romantiche emozioni.
Di antiche emozioni.

Ed è inutile che continui
a guardarmi
con quell’ironico cruccio,
imitando una bambina capricciosa;
non sto scherzando!
Mi dispiace,credimi,
ma io scrivo solo quello che sento,
quello che vedo.
Soffrendo come un cane
quando lo scrivo,
quando lo leggo.
Ma è più forte di me.
non sono io che muovo
la dannata penna:
è la mia anima!
La sfortunata anima che,
troppo sensibile
per vivere quest’oggi,
avvilita da tutto quello
ch’è costretta
a vedere,
lentamente sta morendo.

Ecco perché scrivo angosce,
dolori, sofferenze,
perché in me e negli occhi
di chi ipocrita
cerca inutilmente
di rinnegare se stesso
e mascherare quello che prova,
non leggo altro.
Non c’è altro!

Anche se sorridono
in loro vedo chiaramente l’angoscia,
e in me sento solo angoscia.
Allora scrivo: angoscia!
Scrivo la vita…

lunedì 4 ottobre 2010

Cielo busciardo (poesia in napoletano con trad.)



Cielo busciardo

Quanta suspire.
Quanta turmiente.
Pecchè chiagne si saie
ca nun serverr' a nniente?
Te tremman' e' bbraccia
ca stregnen' 'o core
senza ca riesci
a le dà calore.
Tremma 'sta vocca,
parlanno d'ammore,
ma nisciuno risponne
a 'sto grid' 'e dolore.

Guardi cu speranza
'o cielo stellato,
ma stanott' è busciardo,
e chi t'ha lassato
nun sta llà ca te guarda.

Quanta suspire...
chiagne pe l'ammore
perduto pe sempe,
ma nun fa' pazzie!
nun guardà 'stu mare
ca nfame te chiamma.
Rispiett' 'a vita,
e nun penzà da fà finita.

CIELO BUGIARDO



Quanti sospiri.
Quanti tormenti.
Perché piangi se sai
che non servirà a niente?
Ti tremano le braccia
– che stringono il cuore –
senza che riesci
a dargli calore.
Trema la bocca
parlando d'amore
ma nessuno risponde
a questo grido di dolore.

Guardi con speranza
il cielo stellato
– ma stanotte è bugiardo
e chi ti ha lasciato
non sta lì ad aspettarti.

Quanti sospiri...
piangi per l'amore perduto
ma non fare pazzie!
Non guardare questo mare
che infame ti chiama.
Rispetta la vita
e non pensare di farla finita.

mercoledì 22 settembre 2010

SE SOLO…




Se solo domani
non fosse come ieri.
Se il sole non creasse solo ombre
e mi regalasse finalmente
un po’ del suo calore.
Se solo il tempo
non si fosse fermato
e i miei sogni
– proseguendo da soli –
non si fossero frantumati
contro il muro delle illusioni.

Se…
Se solo la vita
non fosse piena di “se”
ma avesse qualche certezza
anche per chi – come me –
vaga nel buio della disperazione
alla ricerca di qualche
rara sensazione
che possa fargli provare
ancora emozione.

venerdì 17 settembre 2010

OI NE’ - poesia in napoletano con traduzione -



OI NE’

Oi ne’,
che d’è ‘sta faccia triste?
Nfunno nfunno
tutto ‘sto dramma nun esiste.

È ‘o vere!
Sulo aiere
te chiammava ammore,
e mo ‘o core
te se spacca mpietto
sentenno quanno è friddo
chisto lietto.

Sprieche e gghiurnate
aspettanno chi
nun turnerria mai.
E ‘sta malinconia
diventa sempe cchiù
na malatia.

‘O saccio che è difficile fa
cumme se isso nun esistisse cchiù,
ma pruovece, fallo pe te!

giovedì 16 settembre 2010

IL MISERABILE - versione definitiva del racconto che accusa le istituzioni per i disastri ambientali con le correzioni consigliate da Milena Madera


IL MISERABILE
L’odore di disinfettante dava allo stomaco. Per un uomo nato e vissuto in aperta campagna, come Mario Verza, l’aria viziata della corsia dell’anonimo ospedale faceva provare dei capogiri. Con lo sguardo cercava inutilmente di trovare una finestra aperta per avvicinarsi ad essa e inalare una boccata d’aria. Ma evitò per timidezza di alzarsi dallo stretto e duro sedile di plastica dove lo aveva fatto accomodare l’infermiere del Pronto Soccorso, trattandolo con scortesia a causa dei vestiti sporchi e consunti propri di chi si fosse recato con urgenza in ospedale venendo direttamente dai campi. Preferì stare a capo chino con la vecchia berretta fra le mani inspessite dai calli, facendo finta di non notare gli sguardi disgustati o ironici della gente che aspettava anch’essa nella piccola sala d’attesa.
In silenzio ripeteva una commossa invocazione, sperando che l’esito di quell’estenuante attesa non fosse come quella fatta pochi anni prima quando aveva condotto in un altro ospedale il suo povero figlioletto, morto per problemi respiratori a soli dodici anni d’età.
Quella mattina si era alzato all’alba come ogni giorno e si era recato nel piccolo podere avuto in eredità dai genitori, dove lui e la moglie Adelina ricavavano gli ortaggi che portavano al mercato e con cui andavano avanti tra stenti e privazioni, quando Beppe, il suo vicino di casa, era corso fin giù alla vallata per dirgli che Adelina stava male e urlava per un forte dolore al basso addome.
Erano alcuni giorni che la donna aveva la febbre e non se l’era sentita di portarla con lui a lavorare nei campi. Il medico generico il giorno prima le aveva prescritto degli antipiretici senza neanche visitarla, dicendo che erano sintomi di stagione e sarebbero passati in pochi giorni. Lasciò il vecchio motorino e salì in fretta e furia nell’auto di Beppe, arrivando pochi minuti dopo dalla moglie, pallida come un cadavere, che si dimenava sul pavimento, contorcendosi dal dolore. Vedendo arrivare i due uomini, per un istintivo pudore, Adelina cercò di coprirsi l’addome, spiegando al marito che appena le era cominciato il ciclo mestruale aveva avvertito delle fitte lancinanti al basso ventre e il sangue usciva copioso e inarrestabile.
Lo sconvolto Mario la strinse a sé fra le braccia divenute d’acciaio per il troppo lavoro e pregò Beppe di accompagnarlo al primo ospedale. Ed era nella sala d’attesa di quello stesso ospedale che era seduto, impacciato e incapace di rivolgere la parola a chicchessia, fissando la porta che si era chiusa molte ore prima dietro la barella ove avevano sdraiato la sofferente Adelina.
Si era fatta sera quando alcuni medici uscirono parlottando fra loro e si avvidero del fattore seduto sul piccolo sedile attaccato al muro. La timidezza impediva a Mario di chiedere informazioni, e sperò che almeno questo gruppetto di medici e infermieri gli dicesse cosa fosse successo alla sua amata Adele.
Forse fu il suo sguardo supplichevole ed eloquente, o chissà, una sensibilità da parte di uno dei medici, che fece fermare il Dottore a pochi passi dall’uomo seduto e gli chiese chi attendesse.
«Stamattina ho portato mia moglie, Adele Ruocco, con una forte emorragia. Sa qualcosa sul suo stato di salute, Dottore?»
«Ma come!» Urlò il chirurgo. «È da stamattina che la signora Ruocco è stata ricoverata e nessuno si è preoccupato di avvisare il marito?»
«Non sapevamo che ci fossero parenti in attesa in Pronto Soccorso e la signora a causa del suo attuale stato di confusione non ci ha detto nulla.» Tentò di giustificarsi uno degli infermieri.
«Ormai è fatta!» Aggiunse il medico alzando le spalle. «Venga con me al piano di sopra signor Verza, le spiego come stanno le cose.
Vergognandosi per le tracce di terra che lasciavano i suoi scarponi da contadino, che provocavano non pochi risolini ironici fra gli addetti ai lavori e i parenti dei pazienti, Mario seguì l’uomo in camice verde - che si era presentato come il professore Alfonso Rega - fin dentro un piccolo studio ricolmo di cartelle cliniche e schede mediche. Fatto accomodare l’impacciato fattore, il professionista prese una cartella a cui postò il nome della donna ricoverata e chiese varie informazioni al marito.
«Mi sta dicendo che lei e sua moglie abitate in un paesino in aperta campagna, ma sa se in passato la signora Adele ha vissuto in qualche grosso centro industrializzato, oppure se ha lavorato in qualche industria chimica, metallurgica o siderurgica?»
«Conosco mia moglie da quando è nata, Dottore!» Asserì Mario. «Da ragazza aiutava i suoi genitori nell’orto che confinava con il mio e appena maggiorenni ci siamo sposati. Eccetto un paio di brevi viaggi, non ci siamo mai spostati dal nostro paese natio e abbiamo sempre lavorato nei campi poco distanti dalla nostra casa, dove lavoriamo tuttora.»
«Avete figli?»
«Ne era sopravvissuto solo uno ai tanti aborti spontanei che ha subito mia moglie, ma il nostro adorato Roberto è morto tre anni fa per problemi respiratori.»
«Ha delle cartelle cliniche di suo figlio?»
«Io non ho niente. Forse ce l’ha il nostro medico curante che ha seguito la malattia di mio figlio da quando è nato fino alla sua tragica fine.»
«Va bene così per adesso, signor Verza. Queste informazioni mi servono per capire qualcosa di più della patologia di sua moglie.»
«Ma cos’è successo a mia moglie?»
«Questo glielo saprò dire dopo che avremo realizzato una laparoscopia; per adesso dai sintomi non mi sento di escludere che sua moglie sia affetta da endometriosi, una forte infiammazione all’utero. Per realizzare questo esame bisogna sottoporre la paziente ad anestesia totale, per questo le chiedo di firmare questa liberatoria per tutelare l’ospedale da qualche effetto collaterale posteriore l’autopsia.»
«Madonna benedetta! Povera moglie mia. Cosa posso fare Dottore?»
«Per adesso ben poco. Al massimo può andare dal suo medico curante e farsi dare tutta la documentazione che ha raccolto su sua moglie nel corso degli anni. Ho bisogno di tutti gli elementi per fare una giusta anamnesi di questo caso.»
Detto ciò, il bravo medico si alzò e porse la mano al contadino che gliela strinse con delicatezza per paura che la sua dura mano potesse ferire quella curata del dottore. Andò quindi al capezzale della moglie, posta su un letto di una camera con molte altre pazienti, e la trovò ancora debilitata per la grossa perdita di sangue e instupidita dai forti antidolorifici.
Si strinsero la mano e piansero in silenzio per non farsi sentire dagli altri pazienti e dai loro parenti, non accorgendosi che il chirurgo li stava osservando dal fondo del corridoio.
«Cosa pensi?» Gli chiese il suo amico e collega, seguendo lo sguardo dell’altro e fissando anch’egli i due fattori.
«Ai sintomi di quella povera donna. Se non sapessi per bocca del marito che lei ha vissuto tutta la vita in un ambiente incontaminato, avrei diagnosticato un avvelenamento dovuto al contatto cronico e diretto con inquinanti organici persistenti.»
«I pop? E dove vuoi che abbia inalato o ingerito delle diossine? La mia famiglia è natia di un paese vicino a dove risiedono quei due, e anch’io, come tanti nostri concittadini, mi reco spesso in quella zona dell’entroterra per comprare frutta, verdura e prodotti caseari sani e naturali.»
«È questa la mia preoccupazione!» Disse Rega annuendo. «Se il mio sospetto che la patologia della donna è dovuta ad agenti carcinogeni come il Pcdd oppure il Tcdd, non ha avuto possibilità di assorbirli in altri luoghi se non nel luogo in cui è sempre vissuta. Domani voglio parlare con il mio amico oncologo e chiedere al marito della donna di fare delle analisi anch’egli. Voglio togliermi questo dannato tarlo dalla testa.»
Mario per più di una settimana si divise fra il campo la mattina e il capezzale della moglie al pomeriggio. La donna non tendeva a migliorare nonostante con la fine del ciclo mestruale fosse diminuita anche la febbre. Nessuno si prendeva la briga di dargli spiegazioni sul protrarsi della decenza della moglie, e il solo dottor Rega di tanto in tanto si faceva vedere e cercava di rassicurarlo senza però chiarirgli la situazione. Anzi chiedeva al fattore se avesse avuto le cartelle cliniche dal medico curante e se si fosse fatto le analisi del sangue e delle urine come gli aveva consigliato.
Ma l’umiltà con cui Mario chiedeva i documenti al suo medico di famiglia, e la sua innata riverenza verso qualsiasi “colletto bianco” non avevano portato a nessun risultato e l’uomo gli aveva anche risposto in malo modo quando il timido contadino aveva reiterato le sue richieste.
«Ma quale cartella clinica vuoi?» Rispose l’attempato dottore di paese che si preoccupava più della sua carriera di politico locale che non della salvaguardia dei suoi pazienti. «Tuo figlio aveva problemi di asma bronchiale da quando era nato e questo lo ha portato alla tomba. Devo avere in giro da qualche parte l’attestato di morte che ho redatto quando mi chiamarono per constatarne il decesso per cause naturali. In quanto a te non hai sintomi che giustificano la richiesta di tali analisi. Questi pivelli di medici ospedalieri credono che i soldi della Sanità pubblica possono essere buttati così impunemente?»
Quello che sia il medico di paese che il modesto lavoratore della terra non sapevano era che il benvoluto professore Rega aveva mobilitato un suo caro amico appartenente ad un gruppo di agguerriti ambientalisti, che si stava industriando per monitorare la zona ove era situato il podere di Mario. Dopo qualche settimana, da analisi condotte con la gascromatografia eseguita su alcuni campioni, l’equipe di difensori del territorio avevano scoperto che quella zona aveva una tossicità equivalente così alta da collocare quei terreni fra quelli interdetti alle attività umane. Presero alcuni campioni di acqua, ortaggi e latte delle pecore che pascolavano poco lontano e scoprirono che tutti i campioni erano contaminati con varie sostanze chimiche, e in modo maggiore da congeneri di idrocarburi aromatici policlorurati chiamati PCB diossina-simili.
La lontananza di quei luoghi da ogni centro industriale e la sua posizione poco ventilata, fece intuire immediatamente a Rega e agli ecologisti che la causa della presenza di diossine nella zona era dovuta all’interramento di fanghi tossici o all’inquinamento della falda freatica con cui i contadini della vallata irrigavano i campi. Non restò a loro altro da fare che mobilitare la Procura competente che aprì un’inchiesta per scoprire chi avesse commesso tale vile e spietato reato.
Ma il tutto venne presto insabbiato poiché il Giudice competente non ritenne validi gli elementi ricavati dal gruppo di ecologisti e mobilitò dei periti di sua fiducia per fare delle controanalisi che non evidenziarono l’alta tossicità dei primi esami.
Rega non fu per nulla felice di quell’esito e si mobilitò in prima persona recandosi dal Magistrato. I test fatti su Adele Ruocco erano fin troppo chiari ed evidenziavano varie patologie causate dall’assimilazione di cibi e bevande contaminate che avrebbero portato la donna alla morte nel giro di pochi anni. I sospetti del valido professionista erano che il figlio della coppia non fosse morto a causa dell’asma ma per un cancro ai polmoni o alla laringe. Egli sospettava che lo stesso Mario avesse qualche tumore alla prostata o alla vescica, in base alle risposte che il contadino gli aveva dato inerenti alle domande fatte sul suo stato di salute generale.
Il Magistrato lo ascoltò con il volto apparentemente attento ma con lo sguardo perduto in chissà quale lontano pensiero. Se Rega non fosse stato un esperto conoscitore dell’animo umano, avrebbe potuto credere che il profumatamente retribuito difensore delle norme giudiziarie fosse interessato a ciò che gli stava esponendo con tanto fervore e con tanta completa ed esaustiva documentazione. Quello che ricavò dall’incontro fu solo un vago cenno di assenso e una promessa di agire fatta a denti stretti e con gli occhi abbassati sui fogli. Come chi non avesse la forza di guardare il suo interlocutore negli occhi.
Deluso dal disinteresse neppure troppo nascosto dell’uomo, Rega tornò nella sua auto e prese un’altra copia del dossier Ruocco. Guardò assorto i pochi fogli, che in quel momento gli sembrarono più pesanti di un macigno, e decise di dirigersi da Angelo, il suo amico ecologista, nella sede della piccola associazione ONLUS che dirigeva. Dopo aver raccontato all’altro di come era stato trattato freddamente da Giudici e Procuratori, l’amico gli consigliò di prendere il dossier e recarsi insieme a lui nella stazione cittadina dei Carabinieri per presentare una regolare denuncia contro ignoti per danno ambientale. In questo modo se avessero trovato nuovi elementi avrebbero potuto allertare i militari che a loro volta potevano fare delle indagini ufficiali.
Il Maresciallo, comandante della caserma, ascoltò i due e sfogliò con una velocità degna di un recordman il fascicolo. Quando ebbero finito di esporre la loro versione dei fatti disse con un tono dispregiativo:
«Questo Mario Verza è solo un miserabile contadino, e magari la malattia della moglie è dovuta alla mancanza di igiene.»
«Per niente, Maresciallo. Queste patologie sono derivate da esposizione o ingerimento di sostanze contaminate provenienti da industrie metallurgiche o siderurgiche. E le analisi fatte dal signore qui presente con i mezzi forniti dalla sua associazione, sono molto eloquenti.»
«Come lo sono quelle fatte dai periti incaricati dal Giudice competente.» Ribatté il militare. «Tra le due tesi io credo in modo assoluto a quella ufficiale e non la prima fatta da privati.» Soggiunse alzandosi e decretando con quel gesto la fine dell’incontro.
«Ma almeno possiamo fare delle analisi nei dintorni della discarica poco lontana?» insisté Angelo. «Si trova in una proprietà privata vigilata giorno e notte e ci servirebbe un permesso per analizzare le acque nei dintorni per capire se il percolato abbia contaminato qualche pozza collegata ad un’eventuale falda freatica che passa sotto la vallata.»
«Conosco personalmente l’imprenditore titolare di quell’azienda e vi posso garantire che è una persona di estrema fiducia. Quando è stato scelto quel sito per realizzare la discarica e il centro di stoccaggio per rsu, una quindicina di anni fa, abbiamo fatto parte della commissione di vigilanza anche io e il dottore Rastelli, il medico di fiducia della famiglia Verza. Il nostro compito era di osservare che tutto fosse fatto come prescritto dalla ditta appaltatrice dei lavori che stilarono un resoconto completo delle varie opere realizzate che ho depositato personalmente presso gli uffici dell’Autorità di vigilanza regionale. Vi garantisco che tutta la zona è tuttora sicura e la causa della malattia di questa donna è da riscontrare nel modo di vivere malsano di quella famiglia.»
Non avendo più nulla da dire a quell’uomo che palesava con arroganza le proprie convinzioni, i due uscirono e si recarono sfiduciati in un bar per pensare con calma alla prossima mossa da fare. Angelo convinse Rega di andare da Mario e metterlo a conoscenza di ciò che avevano scoperto. Era lui che presto avrebbe perduto la moglie e che probabilmente per la stessa causa aveva visto morire il figlio, quindi era giusto che fosse lui a decidere chi denunciare.
Lo trovarono a lavorare nel suo campo. Stava seminando il trifoglio e i lupini per operare il sovescio con cui di tanto in tanto fertilizzava i suoi campi, usando i metodi tradizionali insegnatigli dai nonni, preferiti da lui alla concimazione chimica senza regole usata dagli altri contadini.
Non sapeva neppure perché si facesse quel tipo di lavorazione dura e faticosa, e fu contento quando Angelo gli spiegò che con il suo metodo tradizionale avrebbe avuto delle piante più forti e con tutti i minerali come l’azoto nitrico. Mentre con l’uso quasi assoluto di fertilizzanti chimici la differenza fra radici e piante non avrebbe consentito alle piante di nutrirsi di tutte le proprietà del suolo e sarebbero state molto più esposte ad attacchi da parte di funghi, muffe e parassiti, costringendo gli agricoltori a usare fitofarmaci e pesticidi.
Mario lo ascoltò con attenzione, e annuì quando l’ambientalista gli chiese se irrigasse con il pozzo artesiano con cui irrigavano anche gli altri contadini della vallata.
«Mario, è inutile una coltura biologica come la tua se l’acqua e l’aria sono inquinate. Tu mi dici che nel tuo campo usi come concime solo composti organici ricavati dai fanghi decontaminati della vicina discarica, ma se qualcuno ti inquina l’acqua con cui irrighi la tua insalata, oppure non ti fornisce concime organico completamente decontaminato da diossine, i prodotti che ricaverai dal tuo orto non saranno diversi da altri che sono stati coltivati in un suolo inquinato.»
Spiegarono tutta la faccenda che avevano supposto al povero uomo che ascoltava con le lacrime agli occhi. Sapere che la moglie avesse pochi anni di vita e che probabilmente anche lui avesse il cancro a causa di qualcuno che desiderava arricchirsi di più e di qualcun altro che doveva controllare e non aveva controllato, lo annientò. Ma a quella spietata gente non era bastato far ammalare i suoi cari, e se l’erano presa pure con quel campo che era tutto ciò che possedeva. Tutto il suo mondo era la sua famiglia e il suo piccolo podere e glielo avevano distrutto.
«Cosa posso fare?» Chiese con un sussurro che sembrò un lamento. «Io sono solo un piccolo contadino ritenuto da tutti un miserabile!»

sabato 11 settembre 2010


LACRIME GLOBALI(Anniversario dell’11 settembre)
Milioni di occhi,
magnetizzati dai vari palinsesti,
commossi si chiedono
come sia stato possibile quest’indimenticabile orrore.
E versano lacrime.
Lacrime, lacrime…
Strane le mie lacrime!
Non sgorgano solo per le vittime innocenti
dell’ultimo eclatante orrore
- anche se vorrebbero soffermarsi
per un attimo su ognuna di esse -
ma spaziano oltre chiedendosi
perché tutto questo!
Perché sono morti questi innocenti?
Viaggio sulle ali del dolore,
traversando gli oceani,
e penso ai tanti padri che,
nella ritorsione susseguita,
vedono i raccolti in fiamme e le greggi distrutte;
coscienti che ben presto i figli seguiranno la stessa sorte.
Piango per quei padri
che subiscono la mondiale rabbia
solo perché sono nati nella parte sbagliata del mondo,
e vengono liberati dagli oppressori con le serafiche bombe.
Piango…
Piango lacrime che ormai
non riescono a trovare un sol motivo per bloccarsi,
vedendo un mondo che si avvicina al nulla.
Piango,
piango lacrime che non hanno confini,
non hanno nazioni, non hanno colore.
Piango lacrime di rabbia nella consapevolezza che chiunque agirà,
sempre un innocente morirà…

giovedì 9 settembre 2010

SULO PE N’ORA - tentativo di canzone in napoletano, con traduzione in italiano, senza uno straccio di metrica musicale:)))


SULO PE N’ORA

Sì stat’a mia
sulo pe n’ora.
’O tiemp’ ‘e te dì
te voglio ancora,
e, senza pietà,
se chiusa chella porta.

Tu, tu nun può sapè
che fuoco m’appiccia
dint’a ‘stu core
‘o penziere ‘e t’avè;
che guerra ca faccio
cu ll’anema mia
se penzo ca te sto perdendo.

No, nun ‘o può capì
chi sì tu pe me.
Nun ‘o può sapè
che vo dì sta cu te
sulo pe n’ora.

Sulo pe n’ora,
te voless’astregnere
sulo pe n’ora;
e po’ che me mporta
se me ne more
si te pozzo chiamà
n’ata vota
“ammore mio!”

Sulo pe n’ora,
chiove o st’ ‘o sole,
è sera o matina,
i’ cammino senza capì
addò porta ‘sta via.
Maledetta malatia
ca m’he purtato a credere
ca fuss’a mia.
E mo c’aggio capito
che era tutta na fantasia,
me faccio piglià
d’ ‘a frenesia
‘e t’avè almeno pe n’ora.

Sulo pe n’ora,
te voglio ancora
sulo pe n’ora,
ammore mio,
tuorn’a esser’a mia
sulo pe n’ora…

Solo per un’ora

Sei stata mia
solo per un’ora.
Il tempo di dirti
ti voglio ancora,
e, senza pietà,
si è chiusa quella porta.
Tu, tu non puoi sapere
che fuoco arde
dentro il mio cuore
al pensiero di averti;
che guerra faccio
con la mia anima
se penso che ti sto perdendo.
No, non lo puoi capire
cosa sei tu per me.
Non puoi sapere
cosa vuol dire stare con te
solo per un’ora.
Solo per un’ora,
vorrei stringerti
solo per un’ora;
e poco m’importa
se dopo muoio
se posso chiamarti
ancora
“amore mio!”
Solo per un’ora,
piove o c’è il sole,
è sera o mattina,
cammino senza capire
dove mi porta questa via.
Maledetta malattia
che mi ha fatto credere
che tu fossi mia.
E adesso che ho capito
che era solo una fantasia,
mi faccio prendere
dalla smania
di averti almeno per un’ora.
Solo per un’ora,
ti voglio ancora
solo per un’ora,
amore mio,
torna ad essere mia
solo per un’ora…

MATTINO - diario -


MATTINO

Le prime luci dell’alba
mi guidano per il cammino
che il mondo mi ha ordinato di seguire,
senza chiedermi cosa mi piacesse:
cosa io volessi della mia vita.
Tutto scontato; tutto deciso!
Tutto irrimediabilmente programmato
e finalizzato in funzione di un benessere economico
che pochi di noi raggiungeranno,
mentre costerà – invece - la dannazione eterna
per tutti quelli che avranno sprecato
la propria vita inutilmente.
Ore, giorni e mesi
a perseguire un progetto
che non riguarda né l’amore né la vita,
ma solo l’effimero denaro che tutto compra:
anche il tempo.
Che tutto brucia, anche l’amore,
nella folle corsa fra due eternità,
dove siamo fantino e cavallo…
acqua e fuoco!

Vivo nella speranza che un giorno
possa permettermi di donare
qualche minuto del breve tempo
che ho a disposizione al mio desiderio d’amare,
e mi cullo nell’illusione che presto qualcuno o qualcosa
mi dia la possibilità di vivere come credo,
senza più dover ritagliare un misero spazio
della triste e vuota giornata
- piena di tanta falsità e inutilità -
ad un sentimento più vero
di quello che non sia la ricerca della sopravvivenza,
in un mondo in cui anche le sensazioni
sono diritto esclusivo di una casta privilegiata.

mercoledì 8 settembre 2010

Scusa - poesia in napoletano con riedizione rivista in italiano.


SCUSA

Pecché nun rispunne?
Te costa tanto sentì
chello che te voglio dì?
‘O saccio ch’è colpa mia,
nun so’ perfetto,
ma neanche na bestia
ca nun merita perdono,
nun merita e te potè dì:
scusa…
Scusa ammore,
stai pavanno
pe avè creduto
a nu sogno non tuo.
He chiuse ll’uocchie
prendenno ‘a mano
e n’omme che t’ha deluso.
E mo che vurria dì
ca senz’ ‘e te preferisco murì,
me chiud’ ‘a porta nfaccia
e nun permitte a ‘ste bbraccia
‘e t’astregnere forte,
accussì forte
‘a nasconnere
ogne dolore
ca forz’ ‘e ‘st’ammore.
Te prego rispunne.
Nun me lassà
cu ‘o turmiente
‘e ‘sto telefono spento.
Soffro già troppo
pe avè creduto
e me cagnà ‘o destino,
senza penzà
che fusse stata tu a patì
pe ‘st’assurda fantasia.
E mo che te vurria dì
che senz’ ‘e te
me sente e murì,
‘sto silenzio tuio
sempe e cchiù me fa suffrì.

SCUSA


Perché non rispondi?
Ti costa tanto ascoltare
chi ti dice che in amore
si può sbagliare?
Lo so che è colpa mia!
Non sono perfetto,
ma neanche una bestia
che non merita perdono.
Non merita di dirti: scusa…

Scusa amor mio, stai pagando
per aver creduto in un sogno non tuo.
Hai chiuso gli occhi
prendendo la mano
di un uomo che ti ha deluso.

E adesso che vorrei dire
che senza di te preferisco morire,
mi chiudi la porta in faccia
e non permetti alle mie braccia
di creare uno scudo d’amore
con cui sconfiggere anche il dolore.

Ti prego rispondi!
Non lasciarmi con il tormento
che mi provoca il tuo telefonino spento.

Soffro già troppo per aver pensato
di cambiare il destino senza riflettere
che fossi tu a soffrire
per quest’assurda fantasia.
E il tuo silenzio aumenta
le fiamme del rimorso e mi nega
il lieve sollievo che mi darebbe
nel chiederti scusa…

domenica 5 settembre 2010

Aisha -racconto che cerca di evidenziare cosa vuol dire a volte seguire delle assurde tradizioni -


Aisha
di Klem D’Avino



I
La bella giornata di sole, dopo alcune giornate di pioggia, era stata attesa con impazienza da Aisha. Era giorno di mercato, e con la scusa di dedicarsi al cucito, la ragazza sedette su una delle panchine del giardino situato dietro l’abitazione e attese che la madre e le sorelle andassero a sbrigare alcune faccende in casa.
Quel luogo era recintato con un alto muro per permettere alle donne della casa di poter sedere a chiacchierare fra loro senza velo, lontane da sguardi indiscreti, ma Aisha aveva scoperto che dai rami di un albero di cedri che superava il muro, poteva osservare di nascosto la gente arrivare dai campi per vendere le loro mercanzie.
Il vento le scompigliava i capelli color ebano, accarezzando il viso alabastrino. Strinse l’ampia tunica intorno alla vita per essere più agevolata nella salita, mostrando un corpo sinuoso e armonico. Nonostante le sue curve fossero quelle acerbe di un’adolescente, l’innata sensualità tipicamente mediterranea la faceva sembrare più matura dei suoi quattordici anni.
.
«Aisha, dove sei?» Chiamò la madre.
La ragazza fu veloce e in pochi secondi scese dall’albero e riprese il suo lavoro di cucito. «Eccomi, mamma!» Rispose sorridendo. Il suo sorriso riusciva a farla sembrare ancora più bella, e la madre la guardò con orgoglioso amore.
«Come ti sei fatta bella, piccola! Stasera alla festa in onore del cugino Oman tutte le altre donne saranno invidiose della tua bellezza.»
«Non dire così, mamma! Mi fai arrossire. Parlami piuttosto del cugino di papà. Non l’ho mai visto.»
«Questi ultimi anni è stato in guerra, dove si è distinto fra i tanti combattenti, per il grande onore di Allah misericordioso. Con lui stasera verranno anche importanti politici e religiosi, per tributargli l’onore che gli spetta per la grande vittoria che ha riportato in battaglia. Sarà presente anche il famoso sceicco Bedir, padrone di quasi tutta la città.»
La madre era appena rientrata in casa quando Aisha poggiò sulla sedia il piccolo telaio e risalì velocemente sul suo albero. Nessuna festa poteva uguagliare il piacere che la ragazzina provava nel vedere la gente vivere libera. La casa dove viveva, con il passare degli anni assomigliava sempre di più a una dorata prigione. Il padre faceva uscire di casa le tre figlie e la moglie solo quando non era possibile fare altrimenti, e si preoccupava che, oltre allo chador, portassero il velo affinché nessuno potesse guardarle.
Aisha si recava nella moschea con i suoi familiari il venerdì. Solo nella musalla le era permesso di rivolgersi a chiunque, partecipando pienamente a tutte le attività comunitarie e venendo trattata con cordialità anche dagli adulti.
Le uniche cose che le donne della sua famiglia conoscevano del mondo erano quelle che raccontavano le altre parenti, anche loro limitate nella libertà fisica. La televisione e la radio venivano accese solo in presenza del padre e dei figli maschi che facevano assistere alle donne solo alcuni determinati programmi.
Ecco perché osservare le persone dall’alto del giardino, facendo attenzione che nessuno la vedesse, era per la ragazza un’emozione incredibile, superiore a quella che poteva rappresentare la sua partecipazione ad una festa dove gli uomini parlavano e bevevano, mentre le loro donne erano rilegate con i bambini in una stanza secondaria.
Come programmato, in serata le quattro donne dell’agiata famiglia si recarono alla festa organizzata per onorare il famoso consanguineo. Tutta la famiglia indossava vesti di tessuto damascato e di seta ricamata.
La bella Aisha, coperta di veli, emanava un fascino misterioso dalla sua persona, che andava al di là della semplice bellezza. I suoi bellissimi occhi scuri, valorizzati dal trucco, avevano avuto in dono dalla natura due iridi altrettanto intense. Il segreto della loro bellezza non stava solo nell'intensità del colore, ma anche nella profondità dello sguardo, che sembrava carezzare le persone e le cose ..
Tutti poterono ammirare l’opulenza di suo padre, che fu accolto dal festeggiato, dagli anziani e dallo sceicco con l’onore che meritava.
Le donne si spostarono in una sala laterale, insieme con i piccoli, mentre nella grande sala gli uomini brindavano e festeggiavano. Aisha si annoiava ad ascoltare le altre donne che ripetevano i soliti discorsi e si avvicinò alla finestra che dava sul retro della casa. Notò quasi subito che le imposte erano state lasciate aperte a causa del gran caldo. Solo una pesante tenda separava la sala dalla vista del cortile posteriore della casa.
Spinta dalla curiosità, e approfittando del fatto che il gruppo fosse assorto ad ascoltare un’anziana, spostò di qualche centimetro il drappo e si mise ad osservare la gente nel cortile.
Fu subito attratta dalla figura atletica di un ufficiale che dava gli ordini ad alcuni suoi commilitoni, che scattarono sugli attenti e l’ubbidirono all’istante. Rimasto solo il militare si accese una sigaretta e sedette sulla scalinata a pochi metri dalla finestra.
«Com’è bello!» Pensò Aisha ammirandone il profilo. Il soldato era molto giovane, e l’espressione sognante con cui guardava il cielo stellato lo rendeva più simile ad un ragazzo che a un uomo.
Nonostante fosse assorto dai suoi pensieri, percepì di essere osservato e si voltò verso la finestra, vedendo il volto di Aisha tra lo stipite e la tenda.
«Sei una visione che mi manda Allah?» Sussurrò sbalordito. Mai aveva visto un volto così bello. Mai aveva ammirato occhi così intensi e labbra così sensuali.
La ragazza sorrise a quel complimento, ma subito abbassò la tenda per paura che qualche donna potesse scoprirla mentre un uomo che non fosse suo parente la guardava senza velo. Si poggiò alla parete e respirò profondamente con la speranza che il fuoco che si era acceso nello stomaco e sulle gote non venisse notato da nessuno.
Già da quel momento presagì che il protagonista dei suoi sogni, il principe vestito come gli eroi antichi che andava a liberarla sul suo cavallo bianco, sarebbe stato sostituito dal giovane ufficiale.
Abel era rimasto senza parole. Il suo cuore si era fermato per l’emozione quando quella stupenda ragazza gli aveva sorriso. Le Uri del Paradiso di Maometto dovevano avere la stessa pelle di porcellana, gli stessi occhi da cerbiatta.
Mai amore fu più fulminante di quello che l’aveva invaso.
Abel era giovane, ma aveva dimostrato il suo valore sin da ragazzo. Per questo Oman, il suo comandante, gli aveva chiesto di mettersi al comando del drappello preposto alla difesa della sua casa e dei suoi ospiti. Sapeva che quella finestra comunicava con la sala dove stavano le donne, e fu felicemente intrigato da quello che era successo. Con la scusa di dover controllare la porta d’ingresso, attese che gli ospiti uscissero per cercare di individuare la ragazza dal viso angelico.
Fu il colore dello chador che gliela fece notare, tra la madre e una sorella maggiore. E se non fosse stato per quell’elemento, lui l’avrebbe notata ugualmente per lo sguardo furtivo che la ragazza gli aveva lanciato. Quegli occhi profondi e immensi come un’oasi del deserto, anche se visti per pochi istanti, non potevano essere più dimenticati.
«Chi è quell’uomo.» Chiese Abel al suo comandante, che aveva appena salutato il padre di Aisha.
«È mio cugino Kaled, un ricco mercante, uno dei nostri più importanti finanziatori. Grazie alle munizioni che ci ha donato, abbiamo vinto l’ultima battaglia.
Senza pensare a cosa facesse, Abel trascorse quasi tutta la sua licenza intorno alla casa di Aisha, nella speranza di vederla almeno passare con la solita scorta che imponevano i capi famiglia alle loro congiunte. Ma fu un’attesa inutile. Il giovane se ne stava andando quando notò un leggero movimento tra i rami dell’albero di cedri che si trovava alle spalle della grande casa. Fu con grande sorpresa che vide fra le foglie il dolce viso di Aisha. Era senza velo, con i lunghi capelli raccolti in una grossa treccia.
Il cuore del ragazzo stava per esplodere per l’immensa ed insperata felicità.
Se non avesse avuto il timore di comprometterla se qualcuno l’avesse scoperto, sarebbe saltato sul muro per parlare con lei. La capacità di trovare una valida soluzione all’istante, tipica del soldato di professione, gli fece notare che il tetto della casa a fianco del giardino era quasi della stessa altezza del muro. Di corsa lo raggirò e, senza farsi vedere da nessuno, in pochi minuti raggiunse il lastrico solare a qualche metro di distanza dai rami del cedro, dove si trovava la ragazza.
La timida Aisha lanciò un piccolo urlo di sorpresa, vedendo apparire la sua testa oltre il solaio. Ma la gioia di averlo rivisto era così grande che, nonostante fosse arrossita e avesse abbassato gli occhi, non scese dall’albero e attese che lui le parlasse.
Ebbero così la possibilità di conoscersi e di consolidare il fulmineo amore che era nato nei loro cuori. Abel, approfittando dell’affetto che Oman nutriva per lui, gli confidò di essere innamorato dell’ultimogenita di Kaled. Gli domandò di presentare la sua richiesta di matrimonio al padre della ragazza.
Oman, sapendo che il suo giovane subalterno era di umili origini e aveva come unico sostentamento la sua paga da soldato, cercò di dissuaderlo.
«Ti rendi conto che Kaled come dono nuziale pretenderà una dote che neppure io potrei pagare? Togliti quest’idea dalla testa e tieniti pronto a partire. Ho anticipato la nostra partenza per domani e dobbiamo organizzarci subito!.»
Nel cuore del ragazzo scese la tristezza, che si amplificò a causa delle lacrime di Aisha quando la sera gli raccontò dell’esito del suo dialogo con Oman. Si promisero eterno amore. Le loro mani si toccarono per la prima volta quando Abel promise che avrebbe fatto il possibile per guadagnare i soldi necessari per la dote e Aisha gli giurò che mai avrebbe amato nessun altro.

II
La festa che era sempre stata considerata di buon augurio da Aisha, poiché le aveva permesso di conoscere il suo innamorato, sarebbe stata invece promotrice di sventura.
Cadigia, l’anziana che tutte le donne ascoltavano con attenzione nella sala, era la sorella dello sceicco. Da quando era rimasta vedova, era ritornata a vivere nell’immenso palazzo dell’amato fratello.
La donna si era subito accorta di quanto fosse bella Aisha. Ne parlò al famoso fratello, che in precedenza l’aveva incaricata di cercargli una donna di buona famiglia da prendere come quarta moglie.
«Tra tutte le appartenenti delle famiglie più in vista della città, solo Aisha, la figlia di Kaled, ha tutti i requisiti per diventare tua moglie, fratello mio. È giovane, bella e proviene da un’onorata famiglia.»
«Aisha..» sussurrò il grasso sceicco sessantenne. «Il nome dell’ultima moglie del Profeta. Sarà di sicuro un buon auspicio, sorella. E il nome promette di regalare nuova linfa a me e alla mia casa.»
Grazie a quella rivelazione, lo sceicco Bedir mandò da Kaled dei testimoni con la richiesta di matrimonio. Essi avevano anche il compito di conoscere la dote che il padre della ragazza pretendeva per ottenere la mano della figlia.
Il mercante accolse con il dovuto rispetto gli ospiti illustri: uno dei due era un imam molto conosciuto e l’altro uno dei più influenti emiri dello Stato.
«Miei onorati signori, sono lusingato dalla richiesta con cui mi onora lo sceicco, ma la mia piccola Aisha, nonostante abbia già l’età per sposarsi, è ancora caratterialmente una bambina e non è all’altezza di diventare la moglie di un uomo tanto saggio e potente.»
«Alla sua età le donne già sono madri!» Rispose indignato l’emiro, di poco più anziano del suo amico sceicco. «Un tuo rifiuto porterebbe discordia tra te e il nostro potente signore. Non dimenticare che tu rifornisci di vari prodotti le tante aziende dello sceicco, che ti onora della sua fiducia. Se si dovesse incrinare questo rapporto, non sarebbe più possibile nessun accordo tra di voi.»
Dopo questa minaccia caddero le riserve che Kaled aveva per la differenza di età dei due e diede il suo consenso. Fedele alle tradizioni, nominò come testimone un suo parente che lavorava per lui per contrattare la dote della figlia con i due emissari. La contrattazione fu fatta all’istante poiché lo sceicco, fiducioso dell’opinione della sorella, aveva ordinato loro di accettare qualsiasi cifra..
Quando gli ospiti uscirono, Kaled chiamò la moglie Fatima ed Aisha, e comunicò loro il suo consenso alla richiesta di matrimonio dello sceicco. Fatima abbassò umilmente la testa e si preparò a spiegare alla figlia quali sarebbero stati i suoi doveri, mentre la fanciulla rimase impietrita.
«Mio buon padre» Cercò di protestare con le lacrime agli occhi. «Lo sceicco è molto anziano. Non puoi chiedermi di sposarlo!»
«Tu farai ciò che io ti ho detto. Ho dato già la mia parola e non la infrangerei neppure sotto tortura. Preparatevi, perché la data del matrimonio è prossima.»
Qualunque altra parola avrebbe inasprito l’uomo e non avrebbe cambiato la sua decisione. La moglie, cosciente di ciò, prese la figlia per la mano e le proibì di obiettare ulteriormente, trascinandola via.
«Figlia mia, ormai tuo padre ha promesso, non si può fare più nulla. Devi prepararti ad essere una buona moglie per lo sceicco, che sarà tuo marito ed anche padrone della tua vita. Se sarà scontenta di te, ti potrà scacciare riempiendoti di disonore, o anche farti del male fisico.»
«Ma io non lo amo, madre mia. Non posso sposare un uomo più vecchio di mio padre!»
«L’amore esiste solo nelle fiabe e l’età avanzata rende l’uomo saggio. Sii una buona moglie e una brava madre. Sono le uniche cose che la società ti chiede.»
Le lacrime versate da Aisha avrebbero fatto impietosire chiunque. Ma ottennero come unico risultato so di far irritare Kaled che, vedendo la figlia appassire ogni giorno di più, come un fiore reciso dal suo stelo, temette che Bedir la scacciasse dopo il matrimonio, riprendendosi la sua dote principesca e riempiendo lui e la sua famiglia di vergogna. L’uomo non si era reso conto di quanto fosse bella sua figlia. Lo sceicco ne rimase così affascinato da pretendere che subito dopo il rito nuziale la ragazza fosse preparata e accompagnata nella sua stanza da letto.
La servitù preparò accuratamente la ragazza per la sua prima notte di nozze, con annessa prova della sua verginità. Dopo averla lavata e profumata, le portarono preziosi vestiti da indossare. Un’ampia gonna turchese, il corpetto finemente decorato con perline, i preziosi orecchini di zaffiro, la collane, bracciali e bindi sulla fronte, facevano di Aisha una splendida odalisca.
Aisha piangeva sommessamente. Non riusciva a muoversi sopra i cuscini, dove due serve l’avevano adagiata. Lo sceicco la chiamò e le chiese di avvicinarsi. Ma lei era come paralizzata. L’uomo allora si alzò, la prese per un braccio e la scaraventò con forza sul letto. Fu così che Aisha da bambina divenne donna. Se non impazzì di dolore per quel trattamento brutale fu solo grazie al ricordo del viso sorridente di Abel.
Ciò che subì la povera ragazzina quella sera era solo l’inizio di una violenza che il saggio, potente e giusto sceicco perpetrò quotidianamente sul suo povero corpo. Stanco di quelli che definiva stupidi piagnistei, incominciò a malmenarla e a trattarla con sempre più sadica aggressività.
«Fin quando non imparerai a ubbidire a tuo marito e soddisfarlo in ogni suo desiderio, lui si sentirà in diritto di picchiarti e possederti come sta facendo.» Le disse la madre quando Aisha le si era confidata, mostrandole i numerosi ematomi e le cicatrici sul viso e sul corpo. Ma si rese amaramente conto di avere sperato inutilmente di trovare solidarietà in colei che l’aveva generata per una vita di fatto diventata un incubo infinito. Era troppo abituata a ubbidire passiva al marito, e non concepiva altri modi di vivere.
«Non ci riesco, madre. Mi fa orrore quell’uomo. E provo per lui solo disgusto.» Protestò tra le lacrime.
«È tuo marito, non ti permettere di parlare così!» La rimproverò la donna. «Se qualcuno ti sentisse e glielo riferisse, per te sarebbe la fine. Ti scaccerà come un cane con la rogna.»
«Credi che essere ripudiata sia un destino peggiore di quello che mi è stato assegnato? Anche la morte mi parrebbe una felice soluzione a confronto di questa vita da incubo che devo sopportare.» Singhiozzò.
«Tuo marito è saggio e benvoluto da tutti. Ogni cosa lui faccia verrà giustificato sempre e tu accusata di non essere una buona moglie.»
«È definito un uomo eccellente dagli uomini come mio padre! Per me è solo un vecchio maiale libidinoso.» Urlò sempre tra le lacrime la ragazza.
«Attenta a quello che dici. Per meno di questo delle mogli sono state bastonate dai mariti fino a morirne. Pensa a tua sorella maggiore. Ha sposato un uomo pressappoco dell’età di tuo marito. È gentile e ubbidiente e lo accontenta in tutto. E lui è sempre affettuoso con la giovane e bella moglie.»
«Solo le prostitute fanno questo con gli uomini che non amano! Io odio quell’uomo che ogni notte abusa di me nei più sadici dei modi. Questo non è amore o rapporto coniugale. Questa è violenza carnale!» Protestò con rabbia Aisha.
Proprio in quell’istante entrò il padre che ascoltò inorridito quelle parole.
«Come ti permetti di parlare così di tuo marito?» Si avvicinò e con uno schiaffo la scaraventò sul pavimento. «Piccola sgualdrina, non sei degna dell’onore che ti ha fatto quell’uomo sposandoti, e farà bene a insegnarti il rispetto con un bastone!.»
«Per te è giusto che mi violenti tutte le notti?» Rispose Aisha con la forza della disperazione, timorosa di essere colpita da un uomo, suo padre, che di fatto non era migliore del suo aguzzino.
«È tuo marito e può fare tutto quello che vuole di te. Si è più volte lamentato che tu sei disubbidiente. Sappi che se per caso dovesse ripudiarti, questa casa è chiusa per te.»


III
La ragazza sperimentò che anche quando si vive l’angoscia più grande della propria vita il tempo continua inesorabile il suo monotono cammino. Aisha era sempre più triste, e nessuno l’aveva mai vista sorridere da quando era andata a vivere nella casa dello sceicco.
Con il passare dei mesi e poi degli anni aveva cambiato atteggiamento. Invece di ribellarsi e cercare di sottrarsi a quello che tutti definivano un dovere coniugale, attendeva immobile che l’uomo finisse di usare il suo corpo, si alzava e a capo chino usciva dalla stanza, senza che lui potesse vedere la disperazione sul suo volto. L’unica cosa che aveva ottenuto con quell’atteggiamento remissivo era che lui non la picchiava più né la prendeva con violenza, confondendo la sua inerzia per un tacito consenso.
Ma dentro di lei la giovane era come morta. Non provava più nulla, né rabbia né dolore. Il nome postole alla nascita significava vivere, ma lei desiderava solo morire.
Tutti erano dispiaciuti che lei non desse un figlio allo sceicco, senza sapere che era il suo stato psichico debilitato a far sì che lei non restasse incinta e che, la forte depressione, presto l’avrebbe portata al suicidio o alla pazzia.
Per non affliggere la madre con il suo sconforto, non andava a trovarla più. Rifiutava di vedere sia il padre che i fratelli quando venivano a fare visita al potente marito. I suoi parenti l’avevano venduta. Non dovevano fare altro che approfittare della situazione per chiedere altri favori all’uomo sadico e meschino che le avevano imposto come marito.
Il vento della guerra e della disperazione si stava avvicinando ai confini della regione controllata dallo sceicco Bedir. Ciò causò molte preoccupazioni all’uomo e gioia ad Aisha, poiché spesso gli impegni politici tenevano il consorte lontano da casa per settimane. La sua era pur sempre una vita da prigioniera, ma almeno non doveva appagare i desideri sessuali del marito.
Il nemico si avvicinava inesorabilmente, e i migliori reparti dell’esercito locale furono richiamati in difesa della capitale. Con essi arrivò anche il battaglione comandato da Oman, di cui faceva parte l’ormai famoso ufficiale Abel.
Dalla sua postazione sul confine, il giovane ufficiale aveva saputo del matrimonio della sua amata, e come tanti innamorati aveva sofferto le pene dell’inferno. Con il tempo si era dovuto rassegnare all’inevitabile e, durante una licenza, si era sposato con una sua lontana cugina, la cui dote nuziale era alla sua portata.
Pur con la possibilità di una guerra imminente, Abel aveva accolto con piacere l’incarico di difendere le mura cittadine, poiché avrebbe avuto spesso la possibilità di tornare a casa e stare con la moglie e il figlio. In quegli anni aveva visto la famiglia solo durante brevi e rare licenze, e qualsiasi cambiamento era ben accetto.
Dovendo predisporre i suoi uomini per la difesa della città, Oman scelse Abel che era il migliore degli ufficiali suoi sottoposti per vigilare il palazzo residenziale dello sceicco. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quella scelta avrebbe presentato dei risvolti inaspettati.
Grazie al suo ruolo di responsabile alla sicurezza, Abel aveva libero ingresso in tutte le stanze del palazzo - eccetto quelle riservate alle mogli del padrone di casa. Anche le vie di accesso, i corridoi e i giardini venivano controllati ogni giorno di persona dal diligente ufficiale. Fu in uno di questi giri di ispezione che l’uomo incrociò una donna coperta di veli che, come lo vide, si bloccò.
L’intento di Abel era quello di salutarla con un inchino e procedere dritto, per evitare di offendere l’illustre padrone di casa, importunando una parente. Ma lo sguardo di lei paralizzò anche lui. Riconobbe all’istante i grandi e luminosi occhi dell’unica donna che avesse mai amato.
«Aisha!» Sussurrò.
La ragazza non seppe trattenersi, lasciò cadere il velo, scoprendo il suo stupendo viso, e con le lacrime agli occhi corse ad abbracciarlo.
L’abbracciò durò solo pochi istanti, perché sentirono un rumore nella stanza vicina. Ritornarono sui loro passi, timorosi che qualcuno potesse leggere sui loro volti i sentimenti che provavano. Le lacrime non smettevano di scorrere dagli occhi arrossati della giovane donna, ma stavolta erano di felicità per il ritrovato amore. Anche per Abel l’incontro era stato sconvolgente. Ardeva dal desiderio di rivederla. Per troppi anni l’aveva desiderata, per troppi anni aveva sofferto per averla perduta.
Senza riflettere alle conseguenze per le loro azioni, approfittarono di una notte in cui lo sceicco era impegnato in uno dei tanti consigli di Stato. Si diedero appuntamento nel giardino attiguo alle stanze delle donne e si amarono con passione sotto il cielo stellato.
L’impeto con cui si amarono fece dimenticare loro ogni prudenza, e più di una donna, insospettita dai rumori, si accorse dei giovani amanti.
Lo sceicco fu informato del tradimento subito dopo il suo ritorno a casa.
Chiamò in gran segreto il suo colonnello e lo fece partecipe dell’accaduto. Il famoso militare si dichiarò dispiaciuto e destituì il suo ufficiale, e lo avvisò che avrebbe dovuto subire un processo.
Ma nessun giudice poté condannarlo poiché fu trovato il mattino dopo suicida nella sua stanza. Si era ucciso con la sua pistola di ordinanza, lasciando solo due righe di scusa alla moglie e al figlio. Alla vergogna della cacciata dall’esercito per ignominia aveva preferito la morte.
Per Aisha il percorso fu più lungo e doloroso. Ripudiata ufficialmente dal marito, fu tratta in prigione come l’ultima malfattrice, dove fu torturata e violentata a turno da chiunque volesse abusare di quella bellissima ragazza di soli diciassette anni. Venne processata con l’accusa di adulterio e, secondo la shari’a, fu condannata a morte mediante lapidazione.
Provenendo da una ricca famiglia, i parenti potevano intervenire in sua difesa presso il muftì, prima che quest’ultimo si pronunciasse per la sentenza definitiva, facendo convertire la pena con qualche anno di carcere.
Non solo il padre dichiarò di averla diseredata e di vergognarsi di essere stato parente di un’adultera, ma fu il primo a lanciare la pietra contro il suo stesso sangue.

venerdì 3 settembre 2010

NON SARAI MAI UN SEMPLICE RICORDO.


NON SARAI MAI UN SEMPLICE RICORDO.

Sento il rumore dei tuoi passi:
o sono i battiti del mio cuore?
Dimentico le poche certezze
che mi erano compagne
e penso alla vita
senza la brezza del vento
a carezzarmi la pelle.
Sono vivo
ma non me ne accorgo.
Forse perché sono morto
e insisto a voler vivere;
ed è ora che io sparisca
attraverso il fumo del tempo,
raggiungendo il desolato mondo
delle anime inquiete.
Nessun respiro di passione,
né sguardo innamorato
porterò nella mia valigia vuota.
Sei stata una presenza troppo intensa
per rilegarti nel fiume dei ricordi
– ove c’è troppa melma e non meriti di stare
per la purezza del tuo essere –
e il pensiero di te
sarà nel mio cuore sempre vivo,
sempre vero.

sabato 21 agosto 2010

SE BASTASSE PIANGERE - purtroppo non basta piangere per salvare i bambini dalla fame e dalla miseria


SE BASTASSE PIANGERE

Cosa guardi?
C’è solo deserto!
C’è solo dolore
in questo mondo
privo d’amore.
Nel tuo domani
non esistono sogni,
non esistono giochi.
Sei un bambino
ma il tuo destino
è segnato dal vuoto
di un pozzo senz’acqua.

Ah, se bastasse piangere,
e tu potessi bere
ogni mia lacrima,
darei l’anima
per sentirti ridere.

La fame ti assale,
la gola ti brucia;
alzi lo sguardo
al fiume di ferro
e ti chiedi perché
non porti acqua
oltre al petrolio.

La gente che passa
sembra distratta
e ti lascia morire
sulla sabbia che scotta.

Senti i boati:
la guerra è vicina!
Trema la terra,
non trema il tuo cuore.
Se questa è la vita,
meglio morire.

giovedì 19 agosto 2010

Dedica


Dedica

Sono passi
che non fanno rumore
quelli che imitano
il battito del cuore.

Resta l’impronta sul suolo:
mentre l’anima duole
e il cielo tuona.

Anche tu
sei figlia del dolore.
Ti cercai e t’ho avuta;
ti dissi sei l’acqua
che placa il rancore.
Sei la vita
che bramo con ardore.

mercoledì 14 luglio 2010

AMORE VIRTUALE


dedicato a tutti gli internauti:
sempre di più il mondo virtuale ha preso il posto della vita reale. ciò è un bene per conoscere persone lontane, ma se ci si nasconde dietro un monitor falsando la realtà, prima o poi qualcuno ne soffrirà.
AMORE VIRTUALE


Lo stupido litigio
attraverso il freddo monitor
ci ha lasciati esausti e disperati.

Aspre parole
amplificate dalla lontananza
dove il profumo della pelle
è solo una sensazione
e la furia non viene mitigata
dal calore dei nostri occhi.

Per un futile equivoco
si è spezzato quel magico
filo che ci teneva uniti
e niente potrà ricongiungerlo
in questa virtualità
dove solo le illusioni
non bastano a mantenere
vivo un sentimento nato
dalle nostre emozioni.

venerdì 9 luglio 2010

ISTANTE SUPREMO


ISTANTE SUPREMO


È la gelida mano a contrastare
l’intenso calore dei tuoi occhi.
Teneramente mi carezza la guancia
e scivola tremula nei capelli
mentre lentamente ti avvicini
e sfiori le labbra facendomi rabbrividire
col tuo caldo e appassionato respiro.

Estasiando i miei sensi
col più sensuale dei sorrisi
con un dolce sussurro delicato
come il volo di una piuma
mi dici: ti amo.

Ti stringo a me
annullando nel dolce e acre
profumo della tua pelle
la mente errante.

Poggio la tua testa sul mio petto
e guardando il Cielo
– prego tacitamente –
che se pur dovessi morire
che sia in quest’istante.

mercoledì 7 luglio 2010

IL RITORNO DEL FALCO - la metafora della mia vita -


IL RITORNO DEL FALCO

Le immagini che vedi sono distorte e si muovono come se la rifrazione termica di un pomeriggio afoso e assolato le facesse strisciare con il tipico andamento di un rettile pronto ad attaccare. Non riesci a renderti conto se tu sia desto o in balia dei soliti incubi notturni, e fai fatica a renderti conto di dove tu realmente stia.
Sognavi il tuo nido sulla rupe protetta dai venti sul versante Est della grande montagna. Sognavi la tua compagna che ti guardava con ammirazione, convinta e sicura che il tuo corpo e il tuo coraggio le avessero offerto qualsiasi tipo di protezione. Ma a spazzare i sogni felici c’era sempre la scura nube all’orizzonte che cresceva man mano che si avvicinava al tuo rifugio, fino ad occultarlo del tutto.
Cosa vuoi che sia la forza o la determinazione, se ti è nemica la sorte? Se nell’ombra il destino ti è nemico e trama contro di te affinché tu perda tutto quello che faticosamente hai conquistato? Eppure al domani non chiedevi altro che un po’ di quiete per poter vivere in pace e poter far sanare le ferite del corpo e dell’anima ottenute dalle spine della vita mentre lottavi per conquistarti un tuo piccolo spazio. Non volevi troppo. I voli pindarici non hanno mai avuto spazio nella tua mente. Ti bastava quel poco per rendere dignitosa la tua esistenza e quella dei tuoi cari, e con l’inganno, con il tradimento sono riusciti a toglierti tutto. Come se tanta gente odiasse chi non vuol far parte della grigia massa e volesse sottrarsi da quello che considera più uno squallore che un progresso. E tutto hanno fatto, tutto hanno detto, fino a che sono riusciti a rinchiuderti in una gabbia a soffrire tutti i giorni di nostalgia e morire dentro mentre vedevi i tuoi cari perire o allontanarsi da te, dalla tua nuova vita di recluso, dal tuo cuore perennemente innamorato.
Ma il risveglio di quel mattino ti porta nuova forza, nuova speranza. Nuove illusioni. Il sangue circola velocemente nelle vene e una scarica di adrenalina ti fa sussultare. Scuoti le ali con furiosa veemenza, per sottrarti del tutto dai tentacoli di quel frustrante limbo che ti intorpidisce mente e corpo, e sei sorpreso dalla energica vigoria che ti trasmettono fin dentro l’anima. Sorridi all’elettrica forza che provi, invece del solito, acuto dolore che ti annientava ad ogni pur piccolo movimento. Un ghigno sardonico illumina il tuo viso e due occhi scintillanti e fieri lanciano saette di fuoco in cerca di chi stolto ti credeva finito, solo perché atrocemente colpito.
Eretto in tutta la ritrovata maestosità, sei pronto a spiccar il volo e librarti finalmente verso l’immenso cielo, quando uno stridio selvaggio sfocia angoscioso dalla tua gola nel vederti circondato da solide sbarre che oltraggiose ti proibiscono l’accesso al tuo vero mondo. Ricordi lontani, come immagini sfocate, si affacciano alla mente, creando un magma infuocato nel tuo stomaco. Rabbioso, ti vedi nella passata agonia debole e provato picchiare contro le infauste sbarre. Lasciarti infine cadere esausto e privo di forza sul freddo suolo della funesta realtà, con l’aspra lacrima a ricordarti quel destino da prigioniero, cucito sulla tua pelle, per ripagarti dell’inesauribile sete di libertà che sempre ha accompagnato ogni tua scelta di vita.
Il furore ti rende folle e centuplica le tue forze; inferocito spicchi un balzo incurante del ferro che tenta di frenare la tua esasperante corsa. Preferisci la morte - non una ma cento volte – invece di quella vegetale esistenza fra le fredde sbarre. Ma niente può impedire il passo alla pazza voglia di vivere che invade la tua anima; e quello che sembrava poco tempo prima una prigione insuperabile, si frantuma in mille pezzi come il più fragile dei cristalli.
Gli inetti e i meschini che si illudevano di averti rinchiuso grazie alle loro bugie, si stupiscono nel vedere il sole oscurarsi dalla tua maestosa ombra. Alzano lo sguardo increduli e spaventati e scappano nelle loro luride tane per il timore che ti rammenti dei tuoi aguzzini. Ma sei troppo in alto e non ti curi di essi, ora che il tuo sguardo ha per orizzonte l’immensità.

martedì 6 luglio 2010

SEI QUELLO CHE LA GENTE CREDE TU SIA (racconto su ambiente e società attuale)


SEI QUELLO CHE LA GENTE CREDE TU SIA

«Già le sette! Come è tardi, maledizione! Anche oggi arriverò in ritardo a lavoro.»
L’uomo si vestì alla svelta, impigliandosi più volte nei vestiti, e, senza fare colazione, si precipitò dalle scale. Prese velocemente la vecchia bicicletta, l’unico mezzo di locomozione che si poteva permettere per colpa dell’inflazione arrivata alle stelle e del salario sempre uguale - da tempo giunto oltre la soglia del limite minimo di sussistenza - e come un forsennato incominciò a pedalare.
Per recuperare una manciata di minuti decise di prendere come scorciatoia la stradina di campagna che passava alle spalle del centro industriale, sperando di non forare una ruota o finire dentro qualche buca.
La brulla e desolata campagna, divenuta grigia come il fumo delle ciminiere, era cambiata radicalmente da quando nell’ultimo piano regolatore ne avevano modificato la destinazione per la realizzazione di un polo industriale. Gli obblighi nel piano di lottizzazione prevedevano che i vari industriali dovessero preservare dall’inquinamento quell’ultimo pezzettino di verde, non costruendo selvaggiamente, ma preoccupandosi di inquinare il minimo possibile utilizzando depuratori per le acque, filtri per le ciminiere e altre forme di prevenzione. Ma era un obbligo solo sulla carta e gli organi di controllo preposti si erano guardati bene dal non intralciare le esigenze dei ricchi industriali, che, pur di guadagnare qualche milione di euro in più, erano disposti ad inquinare anche tutto il pianeta.
Ben presto i contadini avevano smesso di raccogliere i frutti della terra per non rischiare una qualche forma di cancro per essi o per quelli che compravano tali prodotti al mercato per colpa delle polveri sottili nell’aria e del riversamento di fanghi e liquidi tossici sia nelle fogne che in pozzi a perdita, che avevano raggiunto le falde acquifere; e chi non era riuscito a (s)vendere il proprio orto, aveva deciso di abbandonarlo a se stesso.
L’ultima volta che l’operaio era passato per quel luogo l’insediamento industriale era già in atto. La differenza fra prima e dopo la faceva un campo proprio al centro della piccola vallata che rispecchiava come un verde smeraldo in un mare di grigio squallore. Il vecchio contadino, proprietario dell’appezzamento, non interessato al profitto che avesse potuto ricavare dal campo, quanto a soddisfare la sua passione per la Terra, aveva realizzato un’opera d’arte fatta di alberi da frutta di diverse specie che, fiorendo, creavano un arcobaleno su uno sfondo verde.
Peschi, ciliegi, pruni, albicocchi, nespole si susseguivano a filari ordinati e lussureggianti. Sembrava che la natura avesse riconquistato il dominio sull’universo, sconfiggendo le brutture create dall’uomo. Ma era durata poco, e per l’operaio vedere quello stesso campo abbandonato, divenuto dello stesso grigio circostante, era fonte di rammarico. Si avvicinò al cancello d’entrata e lesse su un cartello che il podere era stato messo in vendita dal Comune per la morte del proprietario e la mancanza di eredi.
Cosa era quella tristezza che gli invase l’anima? Non lo sapeva! Come non avrebbe saputo rispondere se qualcuno gli avesse chiesto perché avesse abbandonato la bicicletta e si fosse recato nel capanno a prendere una vecchia zappa. E neppure sapeva da quale mondo astrale o ancestrale gli provenisse la grande forza usata per estirpare le erbacce intorno agli alberi avvizziti.
Infischiandosene di avvisare il responsabile in fabbrica per la sua assenza, lavorò febbrilmente l’orto come se fosse l’unica cosa importante nella vita. L’unica azione che valesse la pena di compiere e per cui consumare il prezioso tempo della nostra breve esistenza.
Le ore scorrevano veloci e l’operaio, tergendosi il sudore, sorrise soddisfatto vedendo un pezzo di terreno dissodato e ripulito dalla sterpaglia e dallo strato di fuliggine grigiastra. Era opera sua quel miracolo! E si inebriò con quella bella e nuova sensazione e con il fresco profumo del terreno appena zappato.
Da qualche anno il professore di filosofia della vicina università, prima di recarsi a lezione - dietro consiglio del medico - per problemi di circolazione sanguigna, passeggiava per quei paraggi: la zona più simile ad una campagna di tutto il circondario, anche se dell’aria pura non conservava neanche il sentore.
Aveva assistito giornalmente al disfacimento di quell’unico campo coltivato facendo varie disquisizioni sulla futilità della vita e sull’imponderabile condizione mortale di ogni essere vivente. Spesso aveva cercato nella sua immensa mente di trovare una soluzione e impedire quell’ultimo scempio alla natura circostante, ma tutto ciò che aveva elaborato gli sembrava irrealizzabile. Solo utopia.
Vedendo quel giovane lavorare fischiettando, capì che con le sole idee, anche se eccelse come le sue, non si sarebbe risolto il problema, ma servivano le braccia e il sudore della fronte. Rinvigorito da una strana atavica forza, discese la piccola scarpata e, dopo un cenno di assenso al giovane, prese un rastrello dal capanno e incominciò ad ammonticchiare l’erbaccia estirpata dall’operaio nella piccola aia.
Per conoscenza didattica sapeva che piante parassite come la gramigna (nonostante fosse una pianta medicinale) non erano adatte al sovescio ma si dovevano far essiccare e poi bruciare altrimenti le loro radici rampicanti avrebbero invaso il suolo, defraudando le altre piante di sostanze nutrienti.
Lavoravano in silenzio, e solo di tanto in tanto sollevavano la testa e guardavano il risultato del loro lavoro. E, contenti degli evidenti progressi, si chinavano e ritornavano a lavorare con nuova lena.
Una grossa auto, che occupava tutta la stradina, si fermò poco lontano e un uomo scese per osservare la zona. Era il più importante industriale della regione e si era recato fra quei campi abbandonati per dar loro un’occhiata dopo che l’assessore all’urbanistica, dietro un suo lauto compenso, gli aveva consigliato di acquistare quei terreni, pagandoli una modica cifra perché considerati ancora in zona agricola. Ma con il prossimo piano regolatore sarebbero rientrati nella zona di espansione urbanistica e si sarebbero realizzati su di essi vari servizi atti a soddisfare le esigenze della vicina area ad alta intensità produttiva. Dopo di allora il loro valore si sarebbe certamente decuplicato facendo la fortuna di chi fosse stato tanto saggio da acquisirne in precedenza la proprietà.
Riconobbe subito il vecchio luminare nell’ometto canuto che stava lavorando nel campo, e ammirò la vigoria del giovane mentre con una grossa zappa liberava un albero dalle erbacce. Non si chiese perché stessero lavorando quel podere abbandonato e in vendita come gli altri, ma sentì come se un lamento provenisse dal campo e qualcuno o qualcosa invocasse anche il suo aiuto. Si soffermò a riflettere, senza però riuscire a capire cosa lo spingesse ad osservare quel campo. Fu questione di un attimo, non resistette più al richiamo e scese di corsa verso il capanno. Come se avesse sempre fatto quei lavori manuali, prese una roncola e incominciò a tagliare i rami secchi e divelti dagli alberi.
Ognuno di essi, guardando il proprio lavoro e quello degli occasionali compagni, annuiva soddisfatto, e in silenzio continuava, scambiandosi spesso gli attrezzi in modo che potessero dare il proprio contributo ad ogni tipologia di lavoro. Non parlavano. Non ce n’era bisogno! Come se qualsiasi rumore oltre quello degli utensili fosse stato una provocazione in quel tempio della Natura. In quel tempio della vita!
Di tanto il tanto il professore si fermava a riposare e guardava con orgoglio i due uomini intenti a combattere contro le erbacce per far riprendere splendore al campo. Intuì che il caso aveva voluto che tre persone socialmente diverse si fossero trovate nello stesso luogo e avessero ascoltato l’invocazione che la Madre Terra emanava nella mente degli uomini.
Fu felice di ciò. Di norma la gente non sente neppure quei messaggi telepatici usati dagli altri esseri viventi che popolano il nostro pianeta e, a differenza dell’uomo, non hanno corde vocali per urlare il proprio sgomento. Invece quella volta il miracolo era riuscito!

La grossa macchina dell’industriale occupava quasi del tutto la carreggiata, e dopo qualche ora si trovò a transitare una decappottabile con quattro giovani che dovettero fermarsi e cercare il proprietario dell’automezzo se avessero voluto proseguire. Erano due coppiette di studenti che avevano scelto di passare qualche ora ad amoreggiare lontano da occhi indiscreti. Seccati dal contrattempo, suonavano il clacson e schiamazzavano per farsi sentire. Videro i tre uomini che lavoravano il campo e si avvicinarono per chiedere se avessero visto il proprietario dell’auto. Impensabile per essi che fosse l’automezzo di uno di loro, dato che dei contadini non avrebbero mai potuto permettersela neppure se avessero lavorato per trecento anni. Quando furono abbastanza vicini, una delle ragazze disse:
«Il giovane lo conosco. Fa l’operaio nella ditta che dirige mio padre.»
«Io invece conosco il vecchio. Ha la cattedra di filosofia nell’università dove è iscritto mio fratello.» aggiunse il ragazzo al suo fianco.
«E io sono sicuro di non sbagliarmi dicendo che il terzo è il proprietario della metà delle fabbriche della zona. Lo conosco perché ha acquistato un’azienda vicino a quella di mio padre.» asserì il terzo giovane.
«Ma cosa fanno?» chiese l’altra ragazza.
«Beh, l’operaio arrotonderà il salario facendo il contadino nelle ore libere.» rispose la prima ragazza.
«Il professore certamente si diletta con l’hobby della ortofrutticoltura.» interloquì il fratello dell’universitario.
«Invece il commendatore è famoso per essere un estroso. Stamattina si starà divertendo facendo finta di essere un contadino, oppure vorrà constatare cosa si provi a lavorare la terra con le proprie mani.»
Il professore fu deluso da quei ragionamenti e si dispiacque con i compagni che i quattro giovani non fossero stati anch’essi tanto sensibili da percepire la voce della Natura come era successo a loro tre, ma le loro menti comprendevano solo l’atrofizzato concetto sociale che si era imposto l’uomo per sopraffare se stesso e gli altri esseri viventi ritenuti inferiori.
«Povera umanità!» esclamò triste. «Quale sarà il tuo domani se tutti, anche quelli che dovranno vivere il domani, non si rendono conto che se non ritorneranno ad imparare ad amare e ascoltare ciò che ci circonda e che favorisce la nostra stessa vita presto tutto sarà irrimediabilmente perduto?»
Scrollò la testa sconsolato e ritornò al suo lavoro.
Il giovane operaio, che a differenza del più saggio professore non sapeva e non si creava neppure più di tanto il problema di sapere cosa fosse stata la molla che lo aveva spinto a compiere quel lavoro di bonifica, dopo aver ascoltato prima i discorsi dei ragazzi e poi le commosse lamentele del famoso luminare, si rivolse a quest’ultimo per avere dei chiarimenti non sulle disquisizioni filosofiche fatte da questi che prevedevano ere glaciali, olocausti ed ecatombe varie, ma su concetti a lui più vicini come la discriminazione sociale:
«Mi scusi, professore, e mi scusi la poca perspicacia e la grande ignoranza, ma, mi può spiegare, lei che è un dotto, perché hanno dato tre definizioni diverse a ciò che facciamo? Non stiamo facendo la stessa cosa?»
Ulteriormente deluso poiché la sua apologia a favore dell’ambiente non era stata capita neppure dai suoi compagni, nonostante avessero anch’essi ascoltato i vagiti del mondo quasi al collasso, ma si preoccupavano invece di conoscere cose che lui riteneva futili come i contesti sociali. Ma quello era l’uomo! E anche il migliore di essi non si sarebbe curato di un albero o di un animale se tale essere vivente avesse ostacolato il suo cammino o fosse stato considerato una fonte di guadagno. Nessun uomo, fin quando si sarebbe ritenuto superiore al proprio simile solo per avere un incarico superiore oppure per la possibilità di comprare quello che a tanti era precluso per questioni economiche, avrebbe mai capito che per la Natura la vita di un albero era superiore alla vita di un umano poiché con l’albero poteva completare un ciclo vitale completo e complesso, con l’uomo ci avrebbe solo rimesso.
Lasciò quindi perdere le sue idee ambientaliste e spiegò all’operaio come ragionassero la maggioranza degli uomini e cosa fosse importante per loro.
«Vero che stiamo facendo lo stesso lavoro!» disse allora. «Loro però non lo considerano tale, altrimenti ci metterebbero allo stesso livello e nella stessa condizione sociale. Cosa che appunto la società non accetta. Io qualsiasi cosa farò, anche la più stupida, sarò sempre un professore con tanto di lauree da mettere in mostra. Il nostro amico industriale qualsiasi sciocchezza dica o faccia sarà sempre una persona ammirata e invidiata per il peso e l’importanza dati dal suo patrimonio. E tu, potrai fare anche la cosa più nobile o intelligente di questo mondo, per la gente sarai sempre un modesto operaio.»

mercoledì 23 giugno 2010

FRAMMENTI DI VITA (bozza di racconto)



FRAMMENTI DI VITA

Introduzione


La pace della notte è turbata dal sibilo affannoso del mio respiro. Guardo il vuoto che, immenso, riempie il mio spazio e per incanto dalle tenebre della mente ombre fuggenti si materializzano, riempiendo la stanza con macabri lamenti.
Frammenti di vita - persi nel buio del tempo - stanchi di dormire, bussano alla porta del rimpianto, e sul viso mi si legge il rimorso per aver sprecato un’esistenza intera dietro futili illusioni, smarrendo la strada che porta alla gioia, che porta all’amore.
Il ricordo degli splendidi anni della mia gioventù è svanito con il trascorrere del tempo. Ciò che mi resta sono solo gli incubi notturni con cui la mente si diverte a tormentarmi. Cosa ero non lo ricorda più nessuno, a volte neppure io. Non importa più a nessuno; neppure a me! Mi trascino stanco in questa mia nuova realtà, circondato da sguardi indifferenti di gente che non vede oltre ai propri occhi e non sa che a volte per emergere e lottare contro un’esistenza già scontata ed assegnata da chi crede di essere il padrone del destino degli uomini devi puntare tutto su un tavolo da gioco e rischiare di perdere tutto al primo tiro mancino della sfortuna.
Macabra ruota è la vita, che ti illude e poi ti abbatte, come se avesse solo giocato con te o ti avesse usato per chissà quale inconsapevole scopo. E intanto è già notte! Non mi resta che aspettare il solito nefasto carico di ricordi che si faccia strada nella mia disastrata mente.
Le pareti all’improvviso sembrano muoversi e tante immagini olografiche si susseguono l’una all’altra, irridendomi per la paura che provo per essi e per l’angoscia che mi causano. Volti mai dimenticati di gente che non c’è più, scorrono lenti, ad uno ad uno. Chi mi guarda torvo, chi compassionevole. E in ogni caso mi provocano brividi.
Rivivo azioni passate; errori passati.
Scriverò fiumi di parole sulle sensazioni che fanno grande l’uomo, che lo fanno credere invincibile. Sprecherò mari di inchiostro sui nefasti momenti della sua caduta, con lo stomaco che si aggroviglia dal dolore e dalla frustrazione, dalla rabbia e dall’angoscia.
Ma penso al presente – a questa notte – con la speranza per la mia mente malata che anche stavolta troverò in qualche anfratto della mia anima la forza di combattere il mio interiore nemico e non farmi annichilire da esso.
Ma è tutto inutile! Appena chiudo gli occhi le tante vicende che ho vissuto o che ho conosciuto mi tornano in mente e io rivedo il tutto come se fossi in una sala cinematografica, dove spesso l’interprete è il dolore e la trama sono le assurdità che succedono giorno per giorno a chi meno se lo aspetta.
Quando sento parlare di eutanasia e testamento biologico, non riesco a non pensare alla storia di un mio caro amico deceduto alcuni anni fa dopo una lunga e dolorosa malattia che lo stava portando alla pazzia. Rammento le parole che usò per raccontarmi la storia della sua vita ad una ad una. Come tanti martelli mi bussano alle tempie e mi fanno sentire inutile poiché io come gli altri lo abbiamo lasciato solo a combattere contro il suo destino.
Non conosco un rimedio che abbia la forza di impedirmi di soffrire per un tale nefasto ricordo, e se provo a scrivere ciò che mi narrò il mio amico è nella remota speranza che condividere la sua storia possa essere un lieve balsamo per la mia anima.

I
Il gruppetto di ragazzi era seduto all’angolo della piazzetta, su quello che una volta era un monumento commemorativo ai caduti di chissà quale guerra ed ora è soltanto un’anonima roccia ricoperta da graffiti, usata come panchina da giovani che non erano neppure nati quando i loro compaesani morivano in modo così eroico - e forse inutile – tanto da meritare un monumento nella piazza principale del paese. Neppure sapevano per quale assurdo motivo giovani della loro età avevano sprecato le loro vite e fossero diventati dei nomi sbiaditi su una pietra brutta e sformata, che solo un pazzo avrebbe potuto far passare per un’opera d’arte, dove risaltavano le date della nascita e quelle della morte.
Il paese aveva e ha un nome, ma non ha senso menzionarlo poiché è disperso nel grande anonimato dell’immenso numero di paesi di provincia che si conoscono più come espressioni geografiche che non per eventi salienti. Come anonimo era anche il gruppo di giovani, con nessuna particolarità che lo distinguesse da migliaia di altre congreghe giovanili. Era una delle tante comitive di ragazzi che lottava per emergere dal grigiore di un’esistenza bella solo per i pochi e tragica o anonima per tanti di essi.
«Non posso venire con voi, ragazzi! Se faccio ancora tardi mio padre mi ammazza di botte!»
«Non inventare scuse!» schernì il protagonista di questa mia storia uno dei ragazzi del gruppo che, nonostante non fosse né il più grosso, né avesse doti particolari, era considerato da tutti come un capo solo perché il padre era l’ex sindaco del paese e possedeva un ingente patrimonio fatto grazie agli introiti legali e illegali della sua clinica privata. «Dicci piuttosto che non vuoi venire perché te ne manca il coraggio!»
«Lo sai che non è vero, Sandro! C’eri anche tu quando mio padre mi ha riempito di botte per essere rientrato dopo mezzanotte. Non tutti i genitori sono tolleranti come i tuoi.»
«Fa’ come credi! Noi andiamo, e se ci ripensi sai dove trovarci.»
I sei ragazzi si allontanarono con i motorini e gli scooter, lasciandolo a piedi. Il padre non aveva mai voluto comprargli un qualsiasi mezzo di locuzione al di fuori della bicicletta - anche se fosse stato un rottame a due ruote - con la scusa una volta che non potevano permettersi quei lussi e un’altra volta per la sua sicurezza. Quell’ultima motivazione usciva fuori ogni qualvolta succedeva un incidente a qualcuno sul motorino, anche se il poveretto di turno fosse ultracentenario ed era morto di infarto e per caso si era trovato a transitare vicino ad un motorino parcheggiato.
Erano appena le venti, e Sandro aveva intuito che quella di suo padre era solo una scusa. Ma non era paura la sua! Non si sentiva un codardo, e l’unico motivo per cui si fosse tirato fuori da quella storia era perché non la considerava giusta. Due giorni prima erano stati ripresi dal proprietario di un bar e dai suoi collaboratori per gli schiamazzi che facevano nel locale. Sandro aveva fatto il galletto e tutti loro avevano preso tante di quei calci e pugni da bastare per dieci lezioni.
Ma Sandro non era il tipo da dimenticare facilmente un affronto del genere poiché era stato abituato sin da piccolo ad essere trattato con servile rispetto. Non aveva accettato di essere stato malmenato come aveva fatto il resto del gruppo con umiltà - dato che loro tutti erano coscienti di essersela andata a cercare - e, neppure quarantotto ore dopo, aveva già predisposto la sua vendetta: sarebbero andati sul retro del bar nel giorno di chiusura dello stesso e con un paio di molotov o una lattina di benzina lo avrebbero incendiato.
Gli altri ragazzi, soggiogati dal carisma di Sandro, erano stati entusiasti di quell’idea, anche se qualcuno di essi annuiva con il capo ma con gli occhi palesava un terrore indicibile. Purtroppo l’orgoglio e il desiderio di appartenere a un gruppo non consentiva loro di ammettere la propria paura, e gasati da un paio di spinelli e qualche birra, anche il più riottoso trovò il coraggio di acconsentire.
«Siete dei matti sconsiderati!» li redarguì il mio amico. «Considerate che appena due giorni fa ci hanno malmenato. Saremo i primi ad essere sospettati. Inutile che andiamo mascherati, tanto ci riconosceranno ugualmente.»
«Ti preoccupi troppo!» mi provocò platealmente Filippo, il figlio di un ufficiale dei carabinieri, che nella comitiva era l’alter ego in negativo di Sandro, deriso da tutti poiché era privo di spirito di iniziativa e non riusciva mai a formulare un pensiero complesso con la sua testa, preferendo rubare le idee degli altri per farle proprie. «La devono pagare per quello che ci hanno fatto, e poi sarà la loro parola contro la nostra. Non dimenticare che i nostri genitori sono persone che contano in questo paese e quel maledetto barista è un ex pregiudicato. Ci provasse soltanto ad accusarci e vedrai quanti problemi avrà!»
Convincerli a desistere era stato impossibile, e il risultato era che sei ragazzi di sedici e diciassette anni stavano andando incontro a guai così grossi che avrebbero rovinato le loro esistenze da lì alla morte. Se fosse successo davvero qualcosa di grave a quelli che erano i suoi unici amici, non sarebbe più riuscito a guardarsi nello specchio, oltre ad essere tacciato per codardo dal gruppo di ragazzi, dai loro parenti e da se stesso.
Decise di seguirli con la speranza di raggiungerli prima che combinassero qualcosa di irrimediabile e cercare per l’ennesima volta di farli ritornare sui loro passi.
Prese a volo un bus e si diresse verso la periferia Sud della cittadina, scendendo pochi isolati prima del bar in questione. La zona era quasi deserta poiché era composta per lo più da depositi e piccole fabbriche di artigiani che a quell’ora erano chiuse. Il proprietario del locale, oltre a lavorare di mattina e a ora di pranzo con i tanti operai e impiegati delle ditte intorno, sfruttava la quiete serale per fare del suo bar un punto di ritrovo intimo e discreto per coppie o persone che desideravano passare inosservati.
Ma quella sera la sua insegna era spenta e tutta la zona era sommersa dal buio. Il giovane si diresse cautamente sul retro del locale dove si vedeva un leggero bagliore. Arrivato all’angolo del cortile interno si affacciò e vide due uomini armati di pistola che alla luce dei fari di un’auto tenevano sotto tiro i suoi amici, ammassati contro il muro, poco distanti da alcune cassette della frutta incendiate e spente con un idrante antincendio ancora svolto per terra.
Probabile che i ragazzi fossero stati sorpresi mentre stavano realizzando il piano architettato da Sandro ed erano stati catturati da uomini che facevano paura non solo per le pistole ma anche per le loro espressioni dure e arcigne.
I ragazzi avevano dei validi motivi per tremare come foglie e abbracciarsi gli uni con gli altri per cercare un minimo di protezione; non era più un gioco, e la dimostrazione era davanti ai loro occhi. Poco distante dal gruppo c’era un altro uomo - che il nuovo arrivato riconobbe come il proprietario del bar – intento a prendere a pugni e calci Sandro, impossibilitato a difendersi o proteggersi da quella gragnola di colpi poiché quasi del tutto privo di sensi.
Le due pistole terrorizzavano gli altri cinque ragazzi che non riuscivano neppure a muovere un dito in difesa dell’amico nonostante l’uomo lo stesse letteralmente massacrando. Tutto il peso politico ed economico del famoso genitore non avrebbe potuto far niente per sottrarlo alla furia cieca dell’uomo che lo colpiva al capo e al corpo senza neppure rendersi conto che un solo colpo di quelli avrebbe potuto ucciderlo.
Il ragazzo nascosto nell’ombra non riuscì ad assistere impassibile a quella scena e uscì dall’angolo buio urlando e inveendo contro l’uomo che stava uccidendo il suo migliore amico. Gli saltò addosso scaraventandolo a terra, rimanendo avvinghiato a lui affinché i due suoi compagni armati non potessero usare le loro armi per colpirlo.
Il proprietario del bar, ripresosi dalla sorpresa, riuscì a infilare una mano nella tasca posteriore dei pantaloni e tirare fuori un coltello a scatto. Fu più la paura di essere colpito che non la volontà del giovane a far sì che afferrasse saldamente la mano armata dell’altro e l’alzasse di colpo per allontanarla dal suo stomaco. Per una vera casualità il coltello si conficcò sotto lo sterno dell’uomo, sparendo del tutto nel suo corpo.
Vistolo immobile, il ragazzo si allontanò da lui, dimenticando del tutto gli altri due uomini armati per lo shock causatogli il pensiero che quell’uomo fosse morto per mano sua, dando a loro la possibilità di sparare a colpo sicuro. Più che il dolore per i proiettili che si conficcarono nel fianco, nella schiena e nella coscia, quello che sentì furono solo i boati degli spari e le urla dei suoi amici. Alzò il volto e vide che i due uomini scappavano – probabile che fossero dei pregiudicati oppure le loro armi non fossero dichiarate – per poi non vedere altro che buio. Un buio così spesso che nessuna notte o nessuna grotta sotterranea potranno mai creare.

II
Aprì gli occhi ritrovandosi in una stanza d’ospedale. Ma forse per precisione avrebbe dovuto dire che socchiuse appena gli occhi, procurandosi parecchio dolore per quel semplice movimento. Come se le palpebre avessero perduto elasticità per non essere state usate per molto tempo. E così era stato!
Era stato in coma per quasi due anni, come seppe in seguito. Appena riuscì a focalizzare la scena nella stanza, vide seduto su una sedia a sdraio il burbero e severo padre che sembrava invecchiato di vent’anni dall’ultima volta che l’aveva visto. Lo guardò solo per un attimo nella sua posizione semisdraiata e capì allora che le volte che quando lo prendeva la mano e gli parlava piangendo come un bambino non era stato un sogno. Era suo padre che gli sussurrava di non arrendersi e di trovare in fondo alla sua anima la forza per superare quella terribile agonia. Era il padre il suo salvatore! E la sua severità di genitore non era una mancanza d’amore per il suo unico figlio ma era dovuta alla paura che il giovane non crescesse come lui considerava giusto o nel modo che riteneva opportuno in base alla sua educazione e mentalità.
Lentamente riuscì ad aprire del tutto gli occhi e cercò di articolare qualche parola, riuscendo solo ad emettere un suono roco e stonato. Ma Dio! Perché, anche se riusciva a muovere in parte le dita delle mani, non gli riusciva di alzarsi e ricambiare l’abbraccio del padre corso al suo fianco? Cosa gli era successo in quella infausta notte?
Seppe nei giorni seguenti cosa gli fosse realmente successo, e cosa era successo dopo che aveva perso i sensi. Lui e il barista erano stati trovati solo la mattina dopo dagli inservienti che erano venuti ad aprire il bar. Furono trasportati in ospedale dove il barista morì dissanguato e il giovane entrò in coma. Se invece di scappare e lasciarli divelti sull’asfalto ad annegare nel loro sangue, gli altri ragazzi oppure gli amici del barista avessero avvisato qualcuno che li avesse soccorso solo un paio di ore prima, l’uomo sarebbe sopravvissuto e lui non sarebbe arrivato così vicino alla morte.
Fra le lacrime il padre gli raccontò di quei terribili mesi. La vergogna che aveva provato l’onesto uomo e tutta la sua famiglia quando gli inquirenti dissero al telegiornale che sicuramente la sparatoria e l’accoltellamento fosse un regolamento di conto o una sporca storia di droga dove il giovane spacciatore aveva ucciso il suo grossista – pregiudicato per questioni inerenti allo spaccio e alla detenzione di stupefacenti – e fosse stato infine ferito dai complici di quest’ultimo.
«Ma allora adesso finirò in galera?» chiese al suo dolce genitore che aveva sempre sognato per l’unico figlio un futuro migliore del suo. Furono le sue lacrime a rispondergli e allo stesso tempo il giovane ebbe la risposta del perché potesse muovere appena la testa e le mani e sentisse il suo corpo finire appena dopo il busto. Seguì il suo sguardo che si fermò angosciato ad una carrozzella appoggiata alla parete, e non servirono più parole, non servirono più spiegazioni.
«Nooo!» urlò con il poco fiato che aveva nella gola.
Non così! Non era giusto che dovesse finire così la sua vita! Ma le ore in cui dalle vertebre lombari era fuoriuscito il midollo spinale erano state troppe, e se pure ci fosse stata una sola possibilità per salvargli le gambe, gli era stata preclusa dalla codardia dei suoi amici che lo avevano abbandonato come un cane rognoso fra le cassette della frutta bruciate.
L’unica speranza che i medici avevano dato ai suoi genitori era che, dopo l’uscita dal coma, avvenisse un miracolo e i suoi organi vitali incominciassero a funzionare meglio, ma i miracoli si contavano e si contano sulle dita, e non era scritto che per lui ci potesse essere un motivo per sperare in un miglioramento. Anzi, la diagnosi fu che con il tempo la paralisi degenerasse e sarebbe arrivato ad essere completamente paralizzato, tanto da dover essere nutrito dalle macchine.

III
I successivi vent’anni l’interprete di questa triste storia li ha trascorsi quasi sempre disperandosi per quell’assurdità capitatagli, e, nonostante fosse stato politicamente più corretto definirsi un diversamente abile, a detta dello psicologo, il suo problema più grave era che non accettava con rassegnazione la sua condizione e si sentisse soltanto un menomato incapace di fare qualsiasi cosa.
Il campo di calcetto e la piazza dove si rincorrevano erano rimasti troppo vivi nella sua mente, e in nessun giorno della sua tormentata esistenza ha potuto dimenticare quegli anni felici.
Avrebbe voluto dire non una ma cento volte allo specialista che lo seguiva e scriveva pagine su pagine sul suo stato psichico, cosa avesse fatto lui se si fosse trovato al suo posto. Come poteva accettarlo? Ma intanto viveva la sua triste esistenza, confortato dalla famiglia che aveva votato la propria vita allo sfortunato parente che non riusciva ad accettare quella sua condizione fisica e sempre di più si esasperava e si disperava.
Una volta gli venne in mente di ripulire il suo nome da tutto il fango che ci avevano buttato sopra gli inquirenti e i giornali e raccontò ad un avvocato tutta la faccenda del suo incidente dopo essere stato zitto per oltre un ventennio. L’avvocato, dopo aver criticato aspramente quei ragazzi, definendoli vigliacchi e criminali, disse che conveniva prima rivolgersi a qualche magistrato conosciuto per vedere se fosse stato possibile riaprire un’inchiesta chiusa tanti anni prima.
Gli diede i nomi degli altri ragazzi presenti la sera del dramma, talora potessero essere ancora rintracciati e con le loro dichiarazioni a conforto delle sue parole fosse stato più facile convincere il magistrato di riaprire l’inchiesta chiusa anni prima con la supposta colpevolezza del giovane, ma ebbe l’effetto contrario e il professionista deglutì di colpo leggendo quei nomi.
Il suo amico magistrato era proprio Filippo, il figlio dell’ufficiale dell’Arma che il mio amico paraplegico rispettava meno di niente. Considerando il suo carattere, era impensabile che lui adesso si fosse messo a difendere i deboli, ma più probabilmente li vessasse ulteriormente divenendo ancor di più un servo dei potenti, sfruttando il suo ruolo di magistrato. L’altro nome che aveva lasciato basito il legale era quello del caro amico Sandro, divenuto prima medico e poi politico, emulando in tutto il padre, anche nella corrente politica.
Ciò che fece il legale, dopo aver preteso un cospicuo acconto per le prime spese, dilapidando quasi il conto corrente del padre e i pochi risparmi che aveva accumulato personalmente con la sua modesta pensione di invalidità, fu quello di ingannarli per mesi dicendo che aveva smosso mari e monti, quando poi alla fine scoprirono tramite la cancelleria del tribunale competente che lui non aveva presentato nessuna istanza né richiesta a chicchessia e le sue erano state solo parole dette al vento.
Ma dopo tanti anni di silenzio era divenuto impellente in quell’uomo triste e sfiduciato il desiderio di chiarire quella storia e riabilitare il suo nome. Cosciente che il suo avvocato non avrebbe mosso un dito ed era stato anche così scaltro da venire a chiedergli altri soldi, sperando di ingannarlo ulteriormente, scrisse personalmente a Filippo e a Sandro, minacciando platealmente una sua dichiarazione dei fatti a mezzo stampa o tramite qualche rivista scandalistica, infangando i loro nomi per vendicarsi che anni prima era stato messo alla gogna il suo di nome per colpa della loro sconsideratezza.
Filippo rispose alla lettera con un’altra lettera, non degnandosi neppure di una telefonata, scrivendo che con una persona sospettata di far parte di una banda di spacciatori, che si fosse per giunta macchiata di un crimine efferato come l’omicidio e che per giunta a causa del suo handicap fisico non aveva neppure pagato per il proprio reato, non aveva niente da spartire, ed era sicuro di non averlo mai conosciuto in gioventù.
Sandro gli mandò un legale con la minaccia di querelarlo talora intendesse raccontare ad altri quell’assurda versione frutto della sua fantasia malata. Allora il povero malato pregò il suo legale di consegnargli una lettera, con cui in nome dell’amicizia che una volta li legava e del suo tentativo di salvargli la vita, gli chiedeva di dargli una mano nel progetto che aveva in mente da anni.
«Caro amico,» gli scrisse. «ti chiedo un unico grande favore: quello di far sì che venga presa in considerazione la mia richiesta di far cessare questo quotidiano tormento e mi sia data la possibilità di decidere io della mia vita adesso che le mie facoltà psichiche sono ancora considerate efficienti e sono ritenuto capace di intendere e volere. La mia malattia è irreversibile e presto sarò ridotto ad un vegetale. Prima che ciò accada, vorrei por fine alla mia esistenza chimicamente. Sono cosciente che la tua corrente politica – vicina agli ambienti cattolici e conservatori - è sempre stata contraria all’eutanasia, e avete sempre combattuto anche il testamento biologico. Ma io, in ricordo dei vecchi tempi, ti invoco di darmi una mano. Ti chiedo solo la libertà di morire conservando la mia dignità di uomo. Null’altro!»
Aspettò parecchi mesi per ricevere una risposta o solo un cenno dall’influente personaggio politico che spesso vedeva in televisione ed era considerato da tutti uno dei giovani più promettenti della politica italiana, e qualcuno aveva addirittura ipotizzato che avesse delle buone probabilità di diventare uno dei prossimi presidenti del Consiglio. Poi un giorno arrivò una lettera senza mittente con un biglietto non firmato:
«Eri un codardo e resti un codardo! Abbi il coraggio di affrontare i problemi in faccia e non scappare sempre!»
Il suo amico Sandro gli aveva dato la sua risposta. Non lo aveva mai perdonato di essersi tirato indietro e aver deciso di non andare con loro quella tragica sera. Per lui contava poco che si fossi immolato per salvargli la vita; non lo aveva assecondato nel suo piano e quindi era e rimaneva un codardo.
E pensare che lui li aveva seguiti proprio per evitare che succedesse loro qualcosa e fosse stato tacciato con quell’aggettivo dispregiativo. A pensarci, considerato che per Sandro e probabilmente per il resto dei ragazzi della piazzetta del monumento ai caduti lui era comunque un codardo, sarebbe stato meglio se non se lo fosse creato quel problema e se ne fosse tornato a casa mantenendo ferma la sua posizione di non commettere un’azione che riteneva abominevole e inutile. Codardo per codardo, meglio esserlo stato restando sano.
Ma si era fatta notte!

Epilogo

Gli ultimi anni li aveva passati cercando qualche rimedio per far diventare realtà la sua idea di smettere di soffrire, sia facendo intervenire associazioni che parlamentari e uomini conosciuti di ogni ambito culturale e sociale. Questa idea lo aveva sorretto e dato la forza di andare avanti. Ma la notte contro gli incubi né io né lui avevamo difese; non avevamo armi.
Il suo incubo ricorrente era veder picchiare una persona con il volto chino. Lui correva verso di lui e riusciva ad allontanare l’ombra dalla forma di una belva. L’aggredito alzava la testa e mostrava il malefico ghigno di un cobra pronto a colpire.
Spesso, però, nei sogni rivedeva gli anni della sua giovinezza, prima della disgrazia, sorridendo per quella anonima ma tranquilla esistenza che allora lo annoiava e invece dopo avrebbe pagato con la sua anima per ritornare a quel periodo.
Tali ricordi avrebbero potuto allietargli il sonno, ma il pensiero di come si era trasformata la sua vita in seguito a quell’unico gesto, commesso senza volerlo, rendeva anche i migliori ricordi degli amari ricordi che avrebbe preferito non rammentare più, relegando il tutto nell’oblio dell’eternità.