mercoledì 23 giugno 2010

FRAMMENTI DI VITA (bozza di racconto)



FRAMMENTI DI VITA

Introduzione


La pace della notte è turbata dal sibilo affannoso del mio respiro. Guardo il vuoto che, immenso, riempie il mio spazio e per incanto dalle tenebre della mente ombre fuggenti si materializzano, riempiendo la stanza con macabri lamenti.
Frammenti di vita - persi nel buio del tempo - stanchi di dormire, bussano alla porta del rimpianto, e sul viso mi si legge il rimorso per aver sprecato un’esistenza intera dietro futili illusioni, smarrendo la strada che porta alla gioia, che porta all’amore.
Il ricordo degli splendidi anni della mia gioventù è svanito con il trascorrere del tempo. Ciò che mi resta sono solo gli incubi notturni con cui la mente si diverte a tormentarmi. Cosa ero non lo ricorda più nessuno, a volte neppure io. Non importa più a nessuno; neppure a me! Mi trascino stanco in questa mia nuova realtà, circondato da sguardi indifferenti di gente che non vede oltre ai propri occhi e non sa che a volte per emergere e lottare contro un’esistenza già scontata ed assegnata da chi crede di essere il padrone del destino degli uomini devi puntare tutto su un tavolo da gioco e rischiare di perdere tutto al primo tiro mancino della sfortuna.
Macabra ruota è la vita, che ti illude e poi ti abbatte, come se avesse solo giocato con te o ti avesse usato per chissà quale inconsapevole scopo. E intanto è già notte! Non mi resta che aspettare il solito nefasto carico di ricordi che si faccia strada nella mia disastrata mente.
Le pareti all’improvviso sembrano muoversi e tante immagini olografiche si susseguono l’una all’altra, irridendomi per la paura che provo per essi e per l’angoscia che mi causano. Volti mai dimenticati di gente che non c’è più, scorrono lenti, ad uno ad uno. Chi mi guarda torvo, chi compassionevole. E in ogni caso mi provocano brividi.
Rivivo azioni passate; errori passati.
Scriverò fiumi di parole sulle sensazioni che fanno grande l’uomo, che lo fanno credere invincibile. Sprecherò mari di inchiostro sui nefasti momenti della sua caduta, con lo stomaco che si aggroviglia dal dolore e dalla frustrazione, dalla rabbia e dall’angoscia.
Ma penso al presente – a questa notte – con la speranza per la mia mente malata che anche stavolta troverò in qualche anfratto della mia anima la forza di combattere il mio interiore nemico e non farmi annichilire da esso.
Ma è tutto inutile! Appena chiudo gli occhi le tante vicende che ho vissuto o che ho conosciuto mi tornano in mente e io rivedo il tutto come se fossi in una sala cinematografica, dove spesso l’interprete è il dolore e la trama sono le assurdità che succedono giorno per giorno a chi meno se lo aspetta.
Quando sento parlare di eutanasia e testamento biologico, non riesco a non pensare alla storia di un mio caro amico deceduto alcuni anni fa dopo una lunga e dolorosa malattia che lo stava portando alla pazzia. Rammento le parole che usò per raccontarmi la storia della sua vita ad una ad una. Come tanti martelli mi bussano alle tempie e mi fanno sentire inutile poiché io come gli altri lo abbiamo lasciato solo a combattere contro il suo destino.
Non conosco un rimedio che abbia la forza di impedirmi di soffrire per un tale nefasto ricordo, e se provo a scrivere ciò che mi narrò il mio amico è nella remota speranza che condividere la sua storia possa essere un lieve balsamo per la mia anima.

I
Il gruppetto di ragazzi era seduto all’angolo della piazzetta, su quello che una volta era un monumento commemorativo ai caduti di chissà quale guerra ed ora è soltanto un’anonima roccia ricoperta da graffiti, usata come panchina da giovani che non erano neppure nati quando i loro compaesani morivano in modo così eroico - e forse inutile – tanto da meritare un monumento nella piazza principale del paese. Neppure sapevano per quale assurdo motivo giovani della loro età avevano sprecato le loro vite e fossero diventati dei nomi sbiaditi su una pietra brutta e sformata, che solo un pazzo avrebbe potuto far passare per un’opera d’arte, dove risaltavano le date della nascita e quelle della morte.
Il paese aveva e ha un nome, ma non ha senso menzionarlo poiché è disperso nel grande anonimato dell’immenso numero di paesi di provincia che si conoscono più come espressioni geografiche che non per eventi salienti. Come anonimo era anche il gruppo di giovani, con nessuna particolarità che lo distinguesse da migliaia di altre congreghe giovanili. Era una delle tante comitive di ragazzi che lottava per emergere dal grigiore di un’esistenza bella solo per i pochi e tragica o anonima per tanti di essi.
«Non posso venire con voi, ragazzi! Se faccio ancora tardi mio padre mi ammazza di botte!»
«Non inventare scuse!» schernì il protagonista di questa mia storia uno dei ragazzi del gruppo che, nonostante non fosse né il più grosso, né avesse doti particolari, era considerato da tutti come un capo solo perché il padre era l’ex sindaco del paese e possedeva un ingente patrimonio fatto grazie agli introiti legali e illegali della sua clinica privata. «Dicci piuttosto che non vuoi venire perché te ne manca il coraggio!»
«Lo sai che non è vero, Sandro! C’eri anche tu quando mio padre mi ha riempito di botte per essere rientrato dopo mezzanotte. Non tutti i genitori sono tolleranti come i tuoi.»
«Fa’ come credi! Noi andiamo, e se ci ripensi sai dove trovarci.»
I sei ragazzi si allontanarono con i motorini e gli scooter, lasciandolo a piedi. Il padre non aveva mai voluto comprargli un qualsiasi mezzo di locuzione al di fuori della bicicletta - anche se fosse stato un rottame a due ruote - con la scusa una volta che non potevano permettersi quei lussi e un’altra volta per la sua sicurezza. Quell’ultima motivazione usciva fuori ogni qualvolta succedeva un incidente a qualcuno sul motorino, anche se il poveretto di turno fosse ultracentenario ed era morto di infarto e per caso si era trovato a transitare vicino ad un motorino parcheggiato.
Erano appena le venti, e Sandro aveva intuito che quella di suo padre era solo una scusa. Ma non era paura la sua! Non si sentiva un codardo, e l’unico motivo per cui si fosse tirato fuori da quella storia era perché non la considerava giusta. Due giorni prima erano stati ripresi dal proprietario di un bar e dai suoi collaboratori per gli schiamazzi che facevano nel locale. Sandro aveva fatto il galletto e tutti loro avevano preso tante di quei calci e pugni da bastare per dieci lezioni.
Ma Sandro non era il tipo da dimenticare facilmente un affronto del genere poiché era stato abituato sin da piccolo ad essere trattato con servile rispetto. Non aveva accettato di essere stato malmenato come aveva fatto il resto del gruppo con umiltà - dato che loro tutti erano coscienti di essersela andata a cercare - e, neppure quarantotto ore dopo, aveva già predisposto la sua vendetta: sarebbero andati sul retro del bar nel giorno di chiusura dello stesso e con un paio di molotov o una lattina di benzina lo avrebbero incendiato.
Gli altri ragazzi, soggiogati dal carisma di Sandro, erano stati entusiasti di quell’idea, anche se qualcuno di essi annuiva con il capo ma con gli occhi palesava un terrore indicibile. Purtroppo l’orgoglio e il desiderio di appartenere a un gruppo non consentiva loro di ammettere la propria paura, e gasati da un paio di spinelli e qualche birra, anche il più riottoso trovò il coraggio di acconsentire.
«Siete dei matti sconsiderati!» li redarguì il mio amico. «Considerate che appena due giorni fa ci hanno malmenato. Saremo i primi ad essere sospettati. Inutile che andiamo mascherati, tanto ci riconosceranno ugualmente.»
«Ti preoccupi troppo!» mi provocò platealmente Filippo, il figlio di un ufficiale dei carabinieri, che nella comitiva era l’alter ego in negativo di Sandro, deriso da tutti poiché era privo di spirito di iniziativa e non riusciva mai a formulare un pensiero complesso con la sua testa, preferendo rubare le idee degli altri per farle proprie. «La devono pagare per quello che ci hanno fatto, e poi sarà la loro parola contro la nostra. Non dimenticare che i nostri genitori sono persone che contano in questo paese e quel maledetto barista è un ex pregiudicato. Ci provasse soltanto ad accusarci e vedrai quanti problemi avrà!»
Convincerli a desistere era stato impossibile, e il risultato era che sei ragazzi di sedici e diciassette anni stavano andando incontro a guai così grossi che avrebbero rovinato le loro esistenze da lì alla morte. Se fosse successo davvero qualcosa di grave a quelli che erano i suoi unici amici, non sarebbe più riuscito a guardarsi nello specchio, oltre ad essere tacciato per codardo dal gruppo di ragazzi, dai loro parenti e da se stesso.
Decise di seguirli con la speranza di raggiungerli prima che combinassero qualcosa di irrimediabile e cercare per l’ennesima volta di farli ritornare sui loro passi.
Prese a volo un bus e si diresse verso la periferia Sud della cittadina, scendendo pochi isolati prima del bar in questione. La zona era quasi deserta poiché era composta per lo più da depositi e piccole fabbriche di artigiani che a quell’ora erano chiuse. Il proprietario del locale, oltre a lavorare di mattina e a ora di pranzo con i tanti operai e impiegati delle ditte intorno, sfruttava la quiete serale per fare del suo bar un punto di ritrovo intimo e discreto per coppie o persone che desideravano passare inosservati.
Ma quella sera la sua insegna era spenta e tutta la zona era sommersa dal buio. Il giovane si diresse cautamente sul retro del locale dove si vedeva un leggero bagliore. Arrivato all’angolo del cortile interno si affacciò e vide due uomini armati di pistola che alla luce dei fari di un’auto tenevano sotto tiro i suoi amici, ammassati contro il muro, poco distanti da alcune cassette della frutta incendiate e spente con un idrante antincendio ancora svolto per terra.
Probabile che i ragazzi fossero stati sorpresi mentre stavano realizzando il piano architettato da Sandro ed erano stati catturati da uomini che facevano paura non solo per le pistole ma anche per le loro espressioni dure e arcigne.
I ragazzi avevano dei validi motivi per tremare come foglie e abbracciarsi gli uni con gli altri per cercare un minimo di protezione; non era più un gioco, e la dimostrazione era davanti ai loro occhi. Poco distante dal gruppo c’era un altro uomo - che il nuovo arrivato riconobbe come il proprietario del bar – intento a prendere a pugni e calci Sandro, impossibilitato a difendersi o proteggersi da quella gragnola di colpi poiché quasi del tutto privo di sensi.
Le due pistole terrorizzavano gli altri cinque ragazzi che non riuscivano neppure a muovere un dito in difesa dell’amico nonostante l’uomo lo stesse letteralmente massacrando. Tutto il peso politico ed economico del famoso genitore non avrebbe potuto far niente per sottrarlo alla furia cieca dell’uomo che lo colpiva al capo e al corpo senza neppure rendersi conto che un solo colpo di quelli avrebbe potuto ucciderlo.
Il ragazzo nascosto nell’ombra non riuscì ad assistere impassibile a quella scena e uscì dall’angolo buio urlando e inveendo contro l’uomo che stava uccidendo il suo migliore amico. Gli saltò addosso scaraventandolo a terra, rimanendo avvinghiato a lui affinché i due suoi compagni armati non potessero usare le loro armi per colpirlo.
Il proprietario del bar, ripresosi dalla sorpresa, riuscì a infilare una mano nella tasca posteriore dei pantaloni e tirare fuori un coltello a scatto. Fu più la paura di essere colpito che non la volontà del giovane a far sì che afferrasse saldamente la mano armata dell’altro e l’alzasse di colpo per allontanarla dal suo stomaco. Per una vera casualità il coltello si conficcò sotto lo sterno dell’uomo, sparendo del tutto nel suo corpo.
Vistolo immobile, il ragazzo si allontanò da lui, dimenticando del tutto gli altri due uomini armati per lo shock causatogli il pensiero che quell’uomo fosse morto per mano sua, dando a loro la possibilità di sparare a colpo sicuro. Più che il dolore per i proiettili che si conficcarono nel fianco, nella schiena e nella coscia, quello che sentì furono solo i boati degli spari e le urla dei suoi amici. Alzò il volto e vide che i due uomini scappavano – probabile che fossero dei pregiudicati oppure le loro armi non fossero dichiarate – per poi non vedere altro che buio. Un buio così spesso che nessuna notte o nessuna grotta sotterranea potranno mai creare.

II
Aprì gli occhi ritrovandosi in una stanza d’ospedale. Ma forse per precisione avrebbe dovuto dire che socchiuse appena gli occhi, procurandosi parecchio dolore per quel semplice movimento. Come se le palpebre avessero perduto elasticità per non essere state usate per molto tempo. E così era stato!
Era stato in coma per quasi due anni, come seppe in seguito. Appena riuscì a focalizzare la scena nella stanza, vide seduto su una sedia a sdraio il burbero e severo padre che sembrava invecchiato di vent’anni dall’ultima volta che l’aveva visto. Lo guardò solo per un attimo nella sua posizione semisdraiata e capì allora che le volte che quando lo prendeva la mano e gli parlava piangendo come un bambino non era stato un sogno. Era suo padre che gli sussurrava di non arrendersi e di trovare in fondo alla sua anima la forza per superare quella terribile agonia. Era il padre il suo salvatore! E la sua severità di genitore non era una mancanza d’amore per il suo unico figlio ma era dovuta alla paura che il giovane non crescesse come lui considerava giusto o nel modo che riteneva opportuno in base alla sua educazione e mentalità.
Lentamente riuscì ad aprire del tutto gli occhi e cercò di articolare qualche parola, riuscendo solo ad emettere un suono roco e stonato. Ma Dio! Perché, anche se riusciva a muovere in parte le dita delle mani, non gli riusciva di alzarsi e ricambiare l’abbraccio del padre corso al suo fianco? Cosa gli era successo in quella infausta notte?
Seppe nei giorni seguenti cosa gli fosse realmente successo, e cosa era successo dopo che aveva perso i sensi. Lui e il barista erano stati trovati solo la mattina dopo dagli inservienti che erano venuti ad aprire il bar. Furono trasportati in ospedale dove il barista morì dissanguato e il giovane entrò in coma. Se invece di scappare e lasciarli divelti sull’asfalto ad annegare nel loro sangue, gli altri ragazzi oppure gli amici del barista avessero avvisato qualcuno che li avesse soccorso solo un paio di ore prima, l’uomo sarebbe sopravvissuto e lui non sarebbe arrivato così vicino alla morte.
Fra le lacrime il padre gli raccontò di quei terribili mesi. La vergogna che aveva provato l’onesto uomo e tutta la sua famiglia quando gli inquirenti dissero al telegiornale che sicuramente la sparatoria e l’accoltellamento fosse un regolamento di conto o una sporca storia di droga dove il giovane spacciatore aveva ucciso il suo grossista – pregiudicato per questioni inerenti allo spaccio e alla detenzione di stupefacenti – e fosse stato infine ferito dai complici di quest’ultimo.
«Ma allora adesso finirò in galera?» chiese al suo dolce genitore che aveva sempre sognato per l’unico figlio un futuro migliore del suo. Furono le sue lacrime a rispondergli e allo stesso tempo il giovane ebbe la risposta del perché potesse muovere appena la testa e le mani e sentisse il suo corpo finire appena dopo il busto. Seguì il suo sguardo che si fermò angosciato ad una carrozzella appoggiata alla parete, e non servirono più parole, non servirono più spiegazioni.
«Nooo!» urlò con il poco fiato che aveva nella gola.
Non così! Non era giusto che dovesse finire così la sua vita! Ma le ore in cui dalle vertebre lombari era fuoriuscito il midollo spinale erano state troppe, e se pure ci fosse stata una sola possibilità per salvargli le gambe, gli era stata preclusa dalla codardia dei suoi amici che lo avevano abbandonato come un cane rognoso fra le cassette della frutta bruciate.
L’unica speranza che i medici avevano dato ai suoi genitori era che, dopo l’uscita dal coma, avvenisse un miracolo e i suoi organi vitali incominciassero a funzionare meglio, ma i miracoli si contavano e si contano sulle dita, e non era scritto che per lui ci potesse essere un motivo per sperare in un miglioramento. Anzi, la diagnosi fu che con il tempo la paralisi degenerasse e sarebbe arrivato ad essere completamente paralizzato, tanto da dover essere nutrito dalle macchine.

III
I successivi vent’anni l’interprete di questa triste storia li ha trascorsi quasi sempre disperandosi per quell’assurdità capitatagli, e, nonostante fosse stato politicamente più corretto definirsi un diversamente abile, a detta dello psicologo, il suo problema più grave era che non accettava con rassegnazione la sua condizione e si sentisse soltanto un menomato incapace di fare qualsiasi cosa.
Il campo di calcetto e la piazza dove si rincorrevano erano rimasti troppo vivi nella sua mente, e in nessun giorno della sua tormentata esistenza ha potuto dimenticare quegli anni felici.
Avrebbe voluto dire non una ma cento volte allo specialista che lo seguiva e scriveva pagine su pagine sul suo stato psichico, cosa avesse fatto lui se si fosse trovato al suo posto. Come poteva accettarlo? Ma intanto viveva la sua triste esistenza, confortato dalla famiglia che aveva votato la propria vita allo sfortunato parente che non riusciva ad accettare quella sua condizione fisica e sempre di più si esasperava e si disperava.
Una volta gli venne in mente di ripulire il suo nome da tutto il fango che ci avevano buttato sopra gli inquirenti e i giornali e raccontò ad un avvocato tutta la faccenda del suo incidente dopo essere stato zitto per oltre un ventennio. L’avvocato, dopo aver criticato aspramente quei ragazzi, definendoli vigliacchi e criminali, disse che conveniva prima rivolgersi a qualche magistrato conosciuto per vedere se fosse stato possibile riaprire un’inchiesta chiusa tanti anni prima.
Gli diede i nomi degli altri ragazzi presenti la sera del dramma, talora potessero essere ancora rintracciati e con le loro dichiarazioni a conforto delle sue parole fosse stato più facile convincere il magistrato di riaprire l’inchiesta chiusa anni prima con la supposta colpevolezza del giovane, ma ebbe l’effetto contrario e il professionista deglutì di colpo leggendo quei nomi.
Il suo amico magistrato era proprio Filippo, il figlio dell’ufficiale dell’Arma che il mio amico paraplegico rispettava meno di niente. Considerando il suo carattere, era impensabile che lui adesso si fosse messo a difendere i deboli, ma più probabilmente li vessasse ulteriormente divenendo ancor di più un servo dei potenti, sfruttando il suo ruolo di magistrato. L’altro nome che aveva lasciato basito il legale era quello del caro amico Sandro, divenuto prima medico e poi politico, emulando in tutto il padre, anche nella corrente politica.
Ciò che fece il legale, dopo aver preteso un cospicuo acconto per le prime spese, dilapidando quasi il conto corrente del padre e i pochi risparmi che aveva accumulato personalmente con la sua modesta pensione di invalidità, fu quello di ingannarli per mesi dicendo che aveva smosso mari e monti, quando poi alla fine scoprirono tramite la cancelleria del tribunale competente che lui non aveva presentato nessuna istanza né richiesta a chicchessia e le sue erano state solo parole dette al vento.
Ma dopo tanti anni di silenzio era divenuto impellente in quell’uomo triste e sfiduciato il desiderio di chiarire quella storia e riabilitare il suo nome. Cosciente che il suo avvocato non avrebbe mosso un dito ed era stato anche così scaltro da venire a chiedergli altri soldi, sperando di ingannarlo ulteriormente, scrisse personalmente a Filippo e a Sandro, minacciando platealmente una sua dichiarazione dei fatti a mezzo stampa o tramite qualche rivista scandalistica, infangando i loro nomi per vendicarsi che anni prima era stato messo alla gogna il suo di nome per colpa della loro sconsideratezza.
Filippo rispose alla lettera con un’altra lettera, non degnandosi neppure di una telefonata, scrivendo che con una persona sospettata di far parte di una banda di spacciatori, che si fosse per giunta macchiata di un crimine efferato come l’omicidio e che per giunta a causa del suo handicap fisico non aveva neppure pagato per il proprio reato, non aveva niente da spartire, ed era sicuro di non averlo mai conosciuto in gioventù.
Sandro gli mandò un legale con la minaccia di querelarlo talora intendesse raccontare ad altri quell’assurda versione frutto della sua fantasia malata. Allora il povero malato pregò il suo legale di consegnargli una lettera, con cui in nome dell’amicizia che una volta li legava e del suo tentativo di salvargli la vita, gli chiedeva di dargli una mano nel progetto che aveva in mente da anni.
«Caro amico,» gli scrisse. «ti chiedo un unico grande favore: quello di far sì che venga presa in considerazione la mia richiesta di far cessare questo quotidiano tormento e mi sia data la possibilità di decidere io della mia vita adesso che le mie facoltà psichiche sono ancora considerate efficienti e sono ritenuto capace di intendere e volere. La mia malattia è irreversibile e presto sarò ridotto ad un vegetale. Prima che ciò accada, vorrei por fine alla mia esistenza chimicamente. Sono cosciente che la tua corrente politica – vicina agli ambienti cattolici e conservatori - è sempre stata contraria all’eutanasia, e avete sempre combattuto anche il testamento biologico. Ma io, in ricordo dei vecchi tempi, ti invoco di darmi una mano. Ti chiedo solo la libertà di morire conservando la mia dignità di uomo. Null’altro!»
Aspettò parecchi mesi per ricevere una risposta o solo un cenno dall’influente personaggio politico che spesso vedeva in televisione ed era considerato da tutti uno dei giovani più promettenti della politica italiana, e qualcuno aveva addirittura ipotizzato che avesse delle buone probabilità di diventare uno dei prossimi presidenti del Consiglio. Poi un giorno arrivò una lettera senza mittente con un biglietto non firmato:
«Eri un codardo e resti un codardo! Abbi il coraggio di affrontare i problemi in faccia e non scappare sempre!»
Il suo amico Sandro gli aveva dato la sua risposta. Non lo aveva mai perdonato di essersi tirato indietro e aver deciso di non andare con loro quella tragica sera. Per lui contava poco che si fossi immolato per salvargli la vita; non lo aveva assecondato nel suo piano e quindi era e rimaneva un codardo.
E pensare che lui li aveva seguiti proprio per evitare che succedesse loro qualcosa e fosse stato tacciato con quell’aggettivo dispregiativo. A pensarci, considerato che per Sandro e probabilmente per il resto dei ragazzi della piazzetta del monumento ai caduti lui era comunque un codardo, sarebbe stato meglio se non se lo fosse creato quel problema e se ne fosse tornato a casa mantenendo ferma la sua posizione di non commettere un’azione che riteneva abominevole e inutile. Codardo per codardo, meglio esserlo stato restando sano.
Ma si era fatta notte!

Epilogo

Gli ultimi anni li aveva passati cercando qualche rimedio per far diventare realtà la sua idea di smettere di soffrire, sia facendo intervenire associazioni che parlamentari e uomini conosciuti di ogni ambito culturale e sociale. Questa idea lo aveva sorretto e dato la forza di andare avanti. Ma la notte contro gli incubi né io né lui avevamo difese; non avevamo armi.
Il suo incubo ricorrente era veder picchiare una persona con il volto chino. Lui correva verso di lui e riusciva ad allontanare l’ombra dalla forma di una belva. L’aggredito alzava la testa e mostrava il malefico ghigno di un cobra pronto a colpire.
Spesso, però, nei sogni rivedeva gli anni della sua giovinezza, prima della disgrazia, sorridendo per quella anonima ma tranquilla esistenza che allora lo annoiava e invece dopo avrebbe pagato con la sua anima per ritornare a quel periodo.
Tali ricordi avrebbero potuto allietargli il sonno, ma il pensiero di come si era trasformata la sua vita in seguito a quell’unico gesto, commesso senza volerlo, rendeva anche i migliori ricordi degli amari ricordi che avrebbe preferito non rammentare più, relegando il tutto nell’oblio dell’eternità.

Nessun commento:

Posta un commento