venerdì 11 giugno 2010

RISVEGLIO - racconto su come potrebbe essere più vivibili i rapporti sul posto di lavoro e con i familiari


RISVEGLIO

Il dolce zefiro filtra attraverso la finestra socchiusa e, con i raggi del sole mattutino come compagni, rallegra l’atmosfera della mia amata camera da letto. Destarsi con il radioso tepore dell’astro nascente è sempre stato sinonimo di vita; ed è la vita che scorre nelle mie vene e mi fa sorridere gioioso mentre guardo il cielo e dico «Grazie, mio Dio, di avermi dato l’umiltà di ammirare ciò che hai creato per noi.»
Fischiettando allegro, mi sono recato in bagno e ho incominciato a fare tutti quei gesti che l’abitudine di anni ha resi automatici – e solo chi non può più avere la pace di un quieto risveglio si rende conto di quanto siano cari gli oggetti che un uomo usa quotidianamente – il rasoio, la schiuma da barba con il pennello, il dopobarba. Non semplici oggetti, ma simboli di una vita che scorre serena. Senza troppi fasti, ma neanche molti patemi d’animo; con l’amore per le piccole cose e il rispetto per i grandi sentimenti.
Frattanto che riflettevo sul da farsi, l’aroma del caffè ha inondato tutto l’appartamento, e, con un sorriso di piacere, mi sono recato in cucina e ho visto mia moglie - la mia cara compagna in questa vita terrena – preparare la colazione. Mi sono avvicinato alle sue spalle e l’ho stretta a me incrociando le mani sul suo petto; le ho baciato con ironia, ma anche con un pizzico di malizia, il bellissimo collo, riempiendomi i polmoni con la magica fragranza della sua pelle vellutata. Lei sorridendo mi ha detto di smetterla, ma invece di sottrarsi al mio innamorato abbraccio, si è lasciata andare sul mio corpo, rendendo quel gioco terribilmente eccitante.
Avremmo fatto con piacere l’amore lì, sul tavolo, tra i toast e il profumo del caffè, se non fosse stato per l’irruento e festoso arrivo dei nostri due figli che ci sono saltati addosso e hanno preteso come acconto per la colazione tantissime coccole. Li ho guardati scherzare fra loro e mi sono sentito commosso e orgoglioso. Erano il mio sangue, combinato con quello della loro mamma, e, a differenza di tanti altri bambini, invece di prendere del tutto dai genitori, avevano ereditato da noi due solo le cose belle, come l’indole bonaria, l’intelligenza e il rispetto per tutti gli esseri viventi. Ho stretto la mano di mia moglie, anch’ella felice di vedere i nostri due tesori sani e felici, e con quella stupenda visione mi sono alzato dalla tavola e mi sono preparato per recarmi al lavoro.
Anche se, con due figli che ti adorano, non è facile prepararsi per uscire. All’eccesso del loro entusiasmo, prima pretendevano che io non andassi via, simulando un infantile cruccio, infine hanno insistito per venire con me. Solo dopo che la mamma li ha tenuti ironicamente prigionieri fra le sue braccia, sono riuscito a recuperare tutto il mio vestiario e recarmi a lavoro.
Era un giorno diverso dal solito. Il datore di lavoro, un imprenditore con decine di aziende in tutt’Italia, che avevo visto al massimo due volte in più di quindici anni in cui ero sui dipendente, la sera prima mi aveva fatto avvisare - ed aveva avvisato i miei diretti superiori, stanziati in uno dei tanti uffici ubicati nei pressi dei cantieri di loro competenza - di non andare in cantiere, ma di recarmi direttamente agli uffici cittadini di quella grande società di azioni, poiché doveva parlarmi personalmente.
Ad un arrivista non contento della propria posizione nell’organigramma dell’azienda, questo evento avrebbe creato una forte emozione; ad una persona non sicura del proprio operato, se fosse stato convocato lui dal proprietario di quell’azienda, nonché presidente del Consiglio di Amministrazione della società che faceva a capo di quella stessa azienda e di tante altre, avrebbe destato timore. Ma nessuna di queste sensazioni poteva incupire il mio viso, reso raggiante dal calore e dall’amore familiare. Io amavo il mio lavoro, lo svolgevo con passione, e non mi sarei mai sognato di lasciarlo per guadagnare di più o per occupare una mansione che mi avesse dato prestigio e potere sugli altri o agli occhi degli altri.
I tanti anni da disoccupato prima e precario dopo, mi avevano insegnato che un posto di lavoro che ti permetteva di guadagnare il giusto e, allo stesso tempo ti dava il tempo per stare con la tua famiglia, in questa epoca difficile, valeva molto di più di un lavoro super pagato ma che ti assillava con mille preoccupazioni e non ti dava neanche il tempo di vedere crescere i tuoi figli. La mia idea era sempre stata di insegnare a vivere ai miei ragazzi non con i soldi da regalare loro, ma facendogli sentire tutto l’amore e l’affetto che provavo per essi.
In tutta la mia vita non ero mai entrato in un grattacielo così alto! Questo fu il mio unico timore mentre l’ascensore sfrecciava fino al trentottesimo piano, dove il presidente si era assegnato per sé tutto il piano, occupato da segretarie e stretti collaboratori che sembravano più dei grandi manager da come vestivano e da come fossero sicuri di sé. Mi sono sentito un umile barbone venuto ad elemosinare alla porta di un nobile signore, con la mia giacca comprata anni prima in una svendita nei Grandi Magazzini. Ma, contrariamente a ciò che si fosse creduto, entrando in un ambiente tanto lussuoso, non mi osservarono con disgusto o indifferenza come avevo creduto, vedendoli tutti con abiti griffati e con espressioni disinvolte, ma mi sorrisero e mi chiesero se fossi il signor Rossi, e avuto la conferma che fossi io la persona attesa, mi chiesero con grandissima cortesia se fossi stato così gentile e paziente di accomodarmi nel salottino, frattanto che il presidente – o dottore, come lo chiamavano - si liberasse da un precedente impegno.
Avrei voluto che fossero stati presenti a quella cordiale scena gli impiegati dell’ufficetto ubicato a fianco del cantiere presso il quale lavoravo. Per noi operai, quando dovevamo entrare in quello squallido bilocale, sembrava si dovesse chiedere il permesso al Ministero per gli Affari Costituzionali. E pensare che ognuna di quelle persone che lavoravano nella sede centrale e che mi avevano accolto in modo così cordiale e umano – per niente mellifluo – era superiore per incarico persino al mio direttore. Ma le sorprese non erano finite. La prima la ebbi quando arrivò il mio diretto superiore tutto affannato, non dalla corsa ma dalla tensione che lo faceva sudare copiosamente, e fu costretto a fare la mia stessa identica procedura di identificazione.
Qualcuno forse si chiederà quale fosse stata la sorpresa che testé ho accennato? Era che lui, dichiaratosi dirigente, direttore, responsabile, coadiutore del presidente, eccetera, eccetera, venisse trattato con la medesima cortesia con la quale ero stato trattato io, dichiaratomi un modesto operaio. Per quei signori non c’era differenza, e chissà cosa avrebbero detto se avessero saputo che io, per avere un colloquio con la persona che avevano invitato a sedere al mio fianco e che mi guardava con sdegno, avevo dovuto attendere una settimana e fatto infine sei ore di anticamera in una stanza non riscaldata in pieno inverno.
Stando attento a non sfiorarmi con il gomito, casomai gli avessi sporcato con la mia giacca lisa, ma linda e pulita, il suo bel doppiopetto blu scuro a riga di gesso, messo per la prima volta in occasione di quella convocazione del grande capo, mi ha chiesto senza grazia e con arroganza per quale motivo lui non era a conoscenza che un suo operaio - invece di andare a lavorare - stesse a perdere tempo in un luogo ove non avesse niente da fare e che non doveva neppure conoscere dato il suo misero stato sociale.
Con la solita cortesia che uso quando dialogo con tutti, gli ho detto che la sera prima sono stato contattato tramite telefono da una persona che si era presentata come collaboratrice del dottore, scusandosi di non avermi convocato in via ufficiale mediante telegramma, ma essendo il motivo urgente e il presidente una persona molto impegnata, mi aveva pregato di usarle la cortesia di recarmi l’indomani presso quell’indirizzo, e avrebbero avvisato loro i miei diretti superiori per giustificare la mia assenza. Come se io non fossi una persona credibile e raccontassi frottole, per tutta risposta, l’uomo prese il cellulare e si informò della cosa con i suoi collaboratori, venendo a conoscenza, con disappunto, che avevo detto la verità. Finita la chiamata, tutto si sarebbe aspettato il mio “influente” direttore, all’infuori di venire redarguito da una delle segretarie per aver usato il telefonino e non averlo spento all’entrata, come indicava un cartello, non essendo ammessi tali oggetti in quegli uffici. A questo, l’uomo, sudando ancora più copiosamente la fronte e le mani dal nervoso, si scusò balbettando e si affrettò a tirare fuori dalle tasche i tre-quattro cellulari e spegnerli prima che uno di essi avesse suonato.
Vedere con quale indifferenza venisse trattato quell’uomo che si divertiva a fare l’arrogante con i suoi sottoposti, trattando da bestie noi operai e da schiavi i suoi impiegati, fu solo la prima delle due sorprese. La seconda fu quella di vedere la grande porta in legno intarsiato, che da sola costava quanto tutto l’arredamento del mio bilocale, e uscire una persona con i capelli candidi come la neve, anche se il viso sorridente sembrava molto più giovane di quello che poteva sembrare alla prima apparenza. Appena l’uomo aprì la porta, tutti scattarono in piedi, e io e il direttore facemmo lo stesso. A passi ampi e sicuri, l’uomo, sempre sorridente, si diresse verso di me e mi porse la mano che io strinsi con estrema delicatezza. Non era una mano molle da uomo inerte, ma una possente mano dalla presa d’acciaio che strinse la mia con vigore e aspettò che io facessi lo stesso a mia volta. E solo dopo aver stretto con tutta la forza della mia mano callosa e indurita dall’uso degli utensili da cantiere, lui rimase soddisfatto, mi poggiò l’altra mano sulla spalla e mi disse: «Vieni Rossi, ti aspettavo!» Lasciando imbambolato lo stimatissimo e sudatissimo direttore a cui non aveva neppure rivolto lo sguardo.
Cosa disse o pensò il mio superiore, non lo saprò mai, poiché non riuscii a voltarmi a causa del dottore che mi tenne la sua forte mano sulla spalla e mi condusse con sé nel suo immenso ufficio come se fossi un suo amico di vecchia data, illuminato a giorno dalla luce del sole che attraversava le ampie vetrate. Appena mi sono accomodato sulla grande poltrona in pelle, ho guardato più curioso che intimorito l’energico uomo che mi fissava anch’egli da dietro la scrivania colma di cartelle portadocumenti. Dopo qualche minuto di silenzioso esame, il carismatico uomo, come preambolo, mi ha narrato dei suoi inizi come manovale per pagarsi gli studi, delle tante privazioni patite e umiliazioni subite per emergere in un settore pieno di squali crudeli e voraci. Ma quello per cui mi ha sbalordito è stato quando mi ha elencato - senza guardare nessun foglio - tutti i lavori a cui avevo partecipato in quegli anni come semplice manovale. Alla fine della lunghissima lista, mi ha chiesto con un sorriso perché io non avessi mai chiesto un aumento né avessi chiesto di salire nella scala gerarchica con la speranza di avere un salario più adeguato alle mie capacità, o quantomeno fare un lavoro con meno spreco di energia fisica.
«Perché io amo il mio lavoro, e, considerato il periodo di crisi mondiale, sono soddisfatto di guadagnare il necessario che mi fa vivere bene a me e alla mia famiglia.» È stata la mia sincera e per niente piaggiata risposta.
«Ma tu hai l’esperienza e le qualifiche superiori a tutti i miei caposquadra, e in più, hai titoli di studio che ti permetterebbero di essere un tecnico. Saresti il mio direttore dei lavori più valido poiché conosci il mestiere meglio dei miei tanti geometri, e forse alla pari degli ingegneri e degli architetti che occupano tale incarico.»
Volle sapere perché io con il mio diploma non lo avessi sfruttato, ed è stato contento quando gli ho detto che era stato un fatto di emergenza quando era nato il nostro primogenito, ed io non mi potevo più permettere il lusso di essere precario e, per amore della mia famiglia, ho accettato il primo lavoro a tempo indeterminato che mi offrissero. Premettendo di non essere dispiaciuto per tale scelta poiché, finendo di lavorare alle cinque del pomeriggio – anche se mi svegliavo alle sei del mattino – tale orario mi permetteva di stare tutta la sera con i miei due piccolini. E quello era più gratificante di qualsiasi incarico prestigioso e ben remunerato.
Nonostante fosse una persona indaffaratissima e con i minuti contati, solo dopo questa amabile chiacchierata ha incominciato a dirmi il motivo della mia convocazione. In sintesi, mi ha detto che, con tutte le morti bianche che capitavano giornalmente, lui e tutto il Consiglio di Amministrazione cercavano da tempo di trovare un rimedio che frenasse queste stragi, così numerose da sembrare fosse diventata una vera guerra andare a lavorare e riuscire a ritornare vivi a casa propria. In passato avevano pensato che la maggior parte degli incidenti fossero causati dalla mancanza del rispetto ad ogni concetto di sicurezza, e spendevano centinaia di migliaia di euro in corsi di formazioni, indumenti, oppure attrezzi per far sì che il numero delle vittime diminuisse. Ma niente era servito a tale scopo. Neppure aver ridotto a loro spese a trentacinque ore la settimana lavorativa, lasciando la retribuzione uguale a quanto fosse stata a quaranta, affinché, considerato il lavoro usurante, non venisse mai meno l’attenzione, aveva contribuito ad abbassare il numero delle vittime. Come ultima risorsa avevano assunto dei consulenti per analizzare il problema alla radice e riuscire a trovare questo famoso rimedio. Il responso dell’equipe di esperti era stato che la causa di quasi tutti gli incidenti fosse dovuta al fatto che da anni non si faceva più nessun tipo di tirocinio giovanile, e tanti tecnici od operai incominciavano lavori che non avevano mai fatto per mancanza di alternative. La cosa più grave era la totale inesperienza, non solo dei lavoratori, ma anche dei direttori di lavori o loro sottoposti assunti per organizzare il lavoro, con buona pace per la sicurezza. E un tecnico con un’esperienza quindicinale nel settore, come me, che non aveva mai subito incidenti e conosceva tutti gli aspetti di quel lavoro, sarebbe stato un perfetto direttore dei lavori.
Con il più affabile dei sorrisi, il presidente mi ha detto che volevano attuare al più presto il progetto che avevano deciso i consulenti e realizzare un cantiere-modello che servisse per esempio e guida a tutti gli altri cantieri, e si potessero organizzare in esso corsi di apprendistato retribuito per i tanti subalterni di quella grande società. E, considerato per la prima volta l’assunzione di un dirigente soltanto per i propri meriti, ero stato ritenuto la persona più adatta per dirigere questo cantiere super sicuro e super efficiente per le mie qualifiche scolastiche, i tanti attestati di merito e la mia più che decennale esperienza come operaio in un cantiere.
Se avessi accettato l’incarico mi avrebbe dato lo stipendio che avessi richiesto; avrei avuto piena libertà di azione nell’assumere i collaboratori che avessi ritenuto opportuno far assumere, e carta bianca nell’acquisto di tutti gli indumenti e gli attrezzi ideati per la salvaguardia del personale in un cantiere edilizio. Avrei organizzato io i turni di lavoro: come dovevano essere distribuiti e quante ore doveva lavorare ogni operaio per essere sempre efficiente, mai però a discapito della sicurezza.
«È una bellissima proposta dottore. In questo caso potrei mettere a frutto tutte le idee che in questi anni ho sviluppato per la sicurezza nei cantieri.»
«E che raccontava ai suoi compagni di lavoro dopo ogni incidente, lo so!» mi ha interrotto il magnate, completando la frase al posto mio, e spiegandomi che era quello uno dei motivi per il quale ero stato scelto. Tra i miei amici operai e tra gli impiegati c’erano alcuni che ricevevano regali extra proprio per essere dei delatori e tenevano informato il C.d.A. di tutto ciò che succedesse nei cantieri. Si era scoperto non volutamente che i miei progetti per migliorare la vita degli operai erano i migliori che si potessero avere per efficacia, sicurezza e convenienza.
Per la prima volta le delazioni dei subalterni al titolare avevano avuto un esito positivo per qualcuno che venisse tradito, e mi sono finalmente convinto ad accettare, ma ad una cifra inferiore a quella esorbitante che voleva offrirmi, a patto di avere la piena libertà di poter adottare tutti gli strumenti più innovativi per proteggere uomini e cose nei cantieri, e l’acquisto di nuovi macchinari e utensili al posto di quelli vecchi od obsoleti, anch’essi concausa di tanti incidenti sul lavoro.
«Ma cosa dirà al mio direttore? Ho il timore che lui mi faccia pagare caro già il fatto che lei mi abbia invitato nel suo ufficio e fatto entrare prima di lui, facendogli fare tutta questa anticamera.»
«Se firmerà il contratto sarà lei il suo superiore e ne potrà fare ciò che meglio crede. Licenziarlo o fargli pulire i bagni. Ha carta bianca su tutto quello che riguarda il cantiere e gli annessi uffici.»
Dopo questa mia ultima remore, dovuta non al rispetto per la persona del mio superiore, ma al timore di incorrere nell’isterica e – troppo spessa – ingiustificata rabbia di quell’uomo che scaricava sui suoi sottoposti tutta la sua arrogante frustrazione, il presidente ha preso degli appunti, scrivendo una per una le mie richieste, e ha chiamato alcune delle sue segretarie e un paio di collaboratori, dicendo loro di preparare immediatamente il contratto da far approvare al C.d.A. prima di essere firmato da me, e a tale proposito ha chiesto ad uno dei suoi collaboratori più stretti di convocare il consiglio in mattinata per una seduta straordinaria. Mentre i suoi subalterni eseguivano i suoi ordini con lucida efficienza, lui mi ha invitato nella stanza a fianco dove c’era un accogliente salotto, e dove, appena ci siamo seduti, una ragazza molto graziosa ci ha servito caffè e pasticcini. Nemmeno quindici minuti dopo e hanno bussato alla porta, dicendo che tutto era pronto e aspettavano solo noi. E, per la prima volta nella trentennale storia di quella società, qualcuno che non fosse un membro del Consiglio di Amministrazione è stato accettato nella sala di riunione dello stesso, allestito per quasi tutta la sua larghezza da un immenso tavolo ovale in mogano, circondato da sedie in legno intarsiato e rivestite con damascato in seta, occupate da uomini e donne vestiti con abiti così squisitamente formali che io avevo visto gli stessi vestiti solo in televisione addosso a ministri o uomini di potere.
Per quasi tutta la mattinata sono stato a spiegare tutte le procedure che volevo adottare per rendere sicuro e vivibile il cantiere, ascoltato in religioso silenzio da quelle persone che avevano il potere di manovrare il destino di uomini e nazioni. E, dopo un applauso scrosciante, hanno sottofirmato il contratto da propormi confermando il loro esplicito, unanime consenso. Quando ho appoggiato la penna sul foglio per firmare a mia volta, uno dei collaboratori del presidente, seduto con gli altri segretari e dirigenti non facendo parte del consiglio su sedie disposte lungo il perimetro dell’immenso salone, ha preso da dentro un cestello colmo di ghiaccio una bottiglia di champagne e abbiamo suggellato con un brindisi l’accordo avvenuto.
Solo chi ha vissuto una vita mediocre e all’improvviso vede coronare tutti i sui sogni può immaginare con che leggerezza d’animo percorrevo la strada di casa, che facevo a piedi poiché con due figli e una moglie casalinga non mi sono mai potuto permettere di comprare e mantenere un’auto. La vita per la prima volta mi sorrideva, e ho guardato in alto verso il cielo per ringraziare Dio per tutto quello che avevo ottenuto. Alzando la testa, ho visto che l’orologio della banca, poco distante dalla mia modesta abitazione presa in affitto, nonostante fosse quasi mezzogiorno, segnava le cinque del mattino e faceva uno strano suono che somigliava molto al metallico suono della mia sveglia.
All’improvviso mi sono sentito spintonare su una spalla e mi sono girato, vedendo con sorpresa il viso addormentato di mia moglie che mi urlava di svegliarmi prima che quell’aggeggio infernale avesse svegliato tutto il condominio. Con un balzo mi sono messo a sedere sul letto, mi sono guardato intorno, vedendo non il cielo mattutino ma la mia squallida camera da letto. Ho impiegato vari minuti per rendermi conto che tutto quello che credevo fosse stato il più bel risveglio della mia vita, non era altro che un sogno. E dovevo anche sbrigarmi per non fare tardi se non volevo che quella carogna irascibile che avevo come direttore di cantiere, avesse approfittato del pretesto per il mio ritardo per licenziarmi senza preavviso, facendomi perdere anche quel miserabile lavoro sottopagato che mi consentiva appena di sopravvivere.
Mi sono alzato in fretta, e, per qualche strascico rimanente nella mia mente di quel bellissimo sogno, avevo pensato che dopo vent’anni di matrimonio mia moglie si alzasse almeno questa mattina per prepararmi il caffè, ma già da qualche minuto russava come un ubriaco raffreddato. A riguardo dei miei figli, li vedevo ogni tanto la domenica a pranzo poiché dormivano fino a che non dovevano fare le corse per prepararsi per andare a scuola, e la sera, quando ritornavo a casa, loro erano già usciti con gli amici e rientravano di solito non prima di mezzanotte, quando io, distrutto dal massacrante lavoro che facevo in cantiere, già stavo dormendo da due ore.
Il bagno era freddo e umido, e dalla finestra rotta entrava solo la puzza del fumo dei motori. Mi sono guardato nello specchio opaco vedendo la mia faccia divenuta grigia e anonima e mi sono depresso ancora di più paragonando il mio vero risveglio con quello che avevo sognato fino a qualche minuto prima. La speranza mi faceva dire che forse un giorno avrei avuto un risveglio del genere, ma la logica urlava alla mente e mi diceva: cretino, accontentati del sogno!

Nessun commento:

Posta un commento