domenica 13 giugno 2010

QUATTRO FORI - racconto -


QUATTRO FORI
I
Quattro fori dentro un muro di mattoni. Quattro fori ancora evidenti per i cerchi intorno ad essi fatti con del gesso bianco e dei numeri sbiaditi scritti per elencarli uno ad uno. Quattro fori, l’unico ricordo di una vita:… di una morte. Il primo foro era segnato con il numero 3, poi c’era l’1, il 4 e il 2. L’ordine sparso non rispondeva alle esigenze della metrica fantasiosa di chissà chi, ma probabilmente era causa della sequenza con cui gli investigatori avevano trovato le ogive - o parti di esse - oppure altri campioni per la balistica, e man mano avevano numerato in ordine crescente gli elementi rinvenuti.
Se si fosse fatta un po’ di attenzione, anche sull’asfalto e sul lastricato del marciapiede si sarebbero potuti notare altri segni che identificavano la zona in cui era stato ritrovato il corpo del giornalista Mario Manzi. Un giornalista che si stava specializzando nel raccontare notizie di cronaca e costume, troppo giovane per essere conosciuto e poco importante per essere ricordato.
Subito dopo la sagoma di gesso del corpo del giovane cronista c’erano alcuni cerchietti che continuavano la sequenza inaugurata sulla parete: 7, 8, 6, 5. Erano i quattro bossoli esplosi dalla semiautomatica calibro 9x19 con cui il killer aveva ammazzato il reporter di fianco alla sua utilitaria comprata a rate. Quattro colpi che indicavano, come una particolare carta d’identità, il valore dell’assassino. Se fosse stato un principiante o un incapace imbottito di coca, i colpi sarebbero stati sparati alla rinfusa, senza sapere come renderli letali ed efficaci. Ciò avrebbe fatto soffrire le pene dell’inferno a Mario, che sarebbe morto fra mille strazi in una stanza d’ospedale. Invece il lavoro fatto sul giovane e inesperto cronista era degno di un professionista del crimine. Due proiettili a quello che si definiva il bersaglio grosso: cioè lo stomaco e il torace; un proiettile a bruciapelo al cuore e un altro alla tempia per il definitivo colpo di grazia. Quella macabra sequenza lo aveva portato dalla vita alla morte senza che avesse neanche il tempo di accorgersene. Era morto senza un lamento, senza disturbare nessuno. Come infatti doveva vivere, se avesse voluto vivere, e non morire a soli ventitré anni.
Nel lato superiore della sagoma contorta di gesso c’era una lettera A, quasi del tutto svanita, e nei pressi del marciapiedi, poco distante dal luogo in cui era caduto il giovane, c’erano altri cerchi indicati con delle lettere: E, C, D, B; erano i reperti di materia organica, come il tessuto del cuoio capelluto, il sangue o i pezzi di massa cerebrale che dovevano essere analizzati dalla scientifica. Tutti diligentemente segnati dagli investigatori – con tanto di documentazione che descrivevano sia la posizione che il verso e la direzione - per dare ulteriori elementi ai medici legali per descrivere nei loro referti come si fosse svolto l’agguato e con quale dinamica, modalità e sequenza fosse stato eseguito. Ma quello che i medici non potevano scrivere, anche se avessero fatto centinaia di esami autoptici, era il perché fosse stato deciso quell’assassinio, considerato il mediocre spessore professionale di quel ragazzino alle prime armi, che per scrivere un trafiletto in sesta pagina copiava lo stile dei suoi colleghi più famosi. Quella era una domanda troppo complessa a cui solo poche persone avrebbero potuto dare una risposta esaustiva.
Erano due anni che lavorava come reporter esterno, o free lance, per il più famoso giornale cittadino. Il direttore, quando lui si era presentato con il suo diploma e l’attestato di giornalista ottenuto attraverso una scuola per corrispondenza, senza che avesse fatto neanche un solo giorno di tirocinio in qualche altra testata – se pur con una tiratura inferiore – gli aveva riso in faccia e gli aveva detto che ogni giorno fuori dalla sua porta c’era una fila lunghissima di persone laureate con tanto di master post universitari che chiedevano di essere messi alla prova, e non aveva tempo da sprecare con un ragazzo di vent’anni senza nessuna esperienza. Ma l’uomo non era diventato direttore di quel famoso giornale solo per i suoi agganci politici, ed era stato voluto dall’editore anche per le sue capacità professionali. Una di quelle capacità consisteva nel saper ricavare un guadagno per i suoi padroni da ogni situazione si presentasse, mostrando un intuito fuori dal comune soprattutto nella scelta dei propri collaboratori.
«Ragazzo!» lo chiamò bloccandolo sulla porta. «Scrivi articoli di un centinaio di caratteri e mandali in redazione. Se ti verranno pubblicati sarai pagato, altrimenti non prenderai un euro. Ti sta bene?»
«Certo che sì!» urlò entusiasta Mario. Era più di quello che avesse immaginato di ottenere.
«Allora dai il tuo nominativo alla signora che vedi seduta all’entrata e fatti dare un tesserino. Adesso le telefono e l’avviso. Ogni volta che avrai qualcosa di interessante, che non sia stato pubblicato da nessuno, dallo alla stessa donna in una busta chiusa intestata a me. Il tuo futuro in questo giornale da oggi in poi dipenderà solo esclusivamente da te! Dammi del materiale valido da pubblicare e io ti farò entrare come cronista in questo giornale.»
Il direttore in questo modo aveva tutto da guadagnare. Del tempo e dei soldi spesi per realizzare un eventuale servizio foto-giornalistico non doveva intervenire il giornale ma era il reporter a doversene fare carico. Solo se l’articolo fosse stato valido si sarebbe dato all’autore un piccolo contributo per coprire una parte di spese, e il reporter, in quei fortunati casi, avrebbe guadagnato quasi sempre solo in autostima. Lo stratagemma era quello di avergli dato un tesserino per farlo sentire vincolato al giornale nonostante nessun contratto lo legasse ad esso; e lui, da free lance, se veramente avesse avuto un articolo interessante da vendere, avrebbe potuto cederlo a chi gli avesse offerto di più. Ma di quei calcoli il giovane ne avrebbe fatto volentieri a meno. Il tesserino con il nome del giornale e la dicitura: Reporter, con all’interno il suo nome e la sua foto istantanea, sembrava ossigeno puro dato ad un moribondo. A vent’anni si è facile agli entusiasmi, si è facile vittima dei sogni, ma quello non era un sogno: era una magnifica realtà!

II
Cavalca l’onda!
Non ricordava dove avesse letto quella frase. Ma l’aveva fatta diventare il suo motto. «Cavalca l’onda, Mario!» si diceva mentre con la vecchia macchina del padre, adattata per i diversamente abili, girava per la città con la speranza che qualcuno o qualcosa lo ispirasse. Il padre, contento quanto il figlio di quell’occasione datagli dal destino, invece di smorzare il suo entusiasmo, facendolo ritornare con i piedi per terra, lo spronava ma allo stesso tempo lo assillava con centinaia di suggerimenti, aumentando la sua già immensa confusione.
«Cavalca l’onda, Mario!»
Ma come? Eccetto i velisti, i surfisti e tutti quegli sportivi con attinenze con il mare, dove poteva trovare la sua onda un ragazzo alla sua prima esperienza lavorativa come cronista? Cronista di cosa poi? Rosa, nera, attualità, sport, costume, cultura, società. Non se l’era mai posto il problema quando, finita la scuola, aveva incominciato a lavorare come ambulante per cercare di dare un aiuto al padre, che con trecento euro di pensione al mese e un’invalidità permanente poteva fare ben poco per la sussistenza della famiglia. E per fortuna la madre aveva trovato lavoro (in nero) in un’impresa di pulizie, altrimenti non sarebbe riuscito neanche a finire la scuola. Ma i sogni a volte richiedono dei sacrifici, e per il grande sogno di diventare un reporter d’assalto, Mario spendeva metà della sua misera paga frequentando un corso per corrispondenza per giornalista, rubando al sonno e alle uscite con gli amici tanto di quel tempo, non immaginando che non avrebbe avuto più l’occasione di recuperare tutte le ore che aveva occupato studiando come un forsennato per colpa di quattro pezzi di metallo sparati con ferocia nel suo giovane corpo. Grazie però ai suoi sacrifici, alla sua determinazione, all’amore dei genitori che lo spronavano sempre a seguire i suoi sogni, aveva ottenuto il sudatissimo attestato di giornalista - che non serviva quasi a nulla - considerati i tanti cronisti diplomati o laureati che cercavano lavoro; ma se tutto nella vita si fosse analizzato con raziocinio, dove sarebbero finiti i sogni? Ed era stato un sogno la molla che aveva spinto Mario a girare in lungo e in largo per la città con in tasca la piccola macchina fotografica 35mm compact del padre, una penna, un taccuino e tanta folle speranza. Ma i giorni passavano senza che nessuna idea lo rapisse o lo interessasse più di un’altra. Si dice che l’afflato colga l’artista all’improvviso, ma nessuno aveva spiegato a quel famoso soffio ispiratore che senza fondi non si poteva aspettarlo in eterno. I pochi soldi che aveva nel salvadanaio erano finiti, e se avesse voluto continuare a girare per i rioni cittadini, sperando di fare qualche servizio da presentare al giornale, doveva sbrigarsi. Nella testa c’erano milioni di articoli da prendere a volo e mettere su un foglio, ma nessuno di essi si faceva raggiungere, e scappavano tutti uno dietro l’altro, svanendo nel confuso oblio della sua mente.
Anche quel giorno volgeva al termine senza che avesse concluso nulla. Un giorno più breve degli altri poiché il padre aveva bisogno della macchina per recarsi alla visita annuale atta a confermare la sua invalidità e continuare a ricevere la pensione. Decise di andare con lui, così avrebbe passato qualche ora in sua compagnia, come faceva prima di dedicarsi anima e corpo a quel - fino ad allora – inutile impegno lavorativo.
«Forse ho sbagliato tutto, papà!» disse triste all’attento genitore che amava il suo unico figliolo più di se stesso e avrebbe dato l’unica gamba che possedeva pur di farlo felice. «Non so niente di questo lavoro. Non so da dove incominciare, cosa dire, come dirlo. Era tutto così semplice quando lo pensavo, invece adesso ho paura di sbagliare, e tutto quello che credevo interessante è già stato detto o si rivela privo di interesse.»
«È normale che tu sia confuso all’inizio, Mario. Basta che ti riesca di pubblicare un servizio e da lì prenderai spunto su come muoverti. Sei giovane e hai tanto tempo davanti a te.»
Continuando a guidare, Mario guardò con la coda degli occhi il padre, anch’egli giovane ma che l’amputazione alla gamba fino al bacino rendeva un povero disabile apparentemente più vecchio della sua età. Anche lui amava con tutto il cuore l’uomo, considerandolo non solo come suo padre, ma il suo amico più caro. Gli ritornò alla mente tutto il calvario patito dal padre quando dieci anni prima un tubo d’acciaio fissato male, nella ditta dove lavorava come operaio, si era staccato e lui con un balzo era riuscito a salvarsi, ma non aveva fatto a tempo a tirare via la gamba che era stata ridotta ad una poltiglia. C’erano voluti più di cinque anni di battaglie legali per chiudere l’inchiesta e riconoscere al povero operaio un risarcimento dei danni poco superiore alle spese che aveva sostenuto in quegli anni tra legali e visite mediche di parte. L’ultima offesa a cui lo avevano sottoposto era quella visita fiscale annuale, atta a riconoscere il perpetrare dell’infermità. Quasi che nel corso dell’anno la protesi in legno si potesse trasformare in una gamba in carne ed ossa, oppure potesse spuntare un arto nuovo dal moncherino della coscia.
Arrivati al presidio ospedaliero, Mario attese con il padre nella sala d’aspetto insieme a tante altre persone che dovevano passare la visita fiscale. Oltre a tanti diversamente abili per cui la visita fiscale era una formalità – se non proprio un’assurdità - alcuni pazienti in attesa erano evidentemente preoccupati, e il padre gli spiegò che erano persone che avevano subito degli interventi chirurgici, come operazioni al cuore o estirpazioni di tumori, che ricevevano una pensione di invalidità momentanea; e quella visita poteva significare la sospensione di quel sostegno previdenziale. Altri erano ancora più preoccupati e guardavano spesso l’uscita, quasi volessero istintivamente guadagnare quella via di fuga se le cose fossero volte al peggio. Erano i famosi invalidi per truffa, chiamati chi per la prima volta, chi già altre volte a sostenere la visita fiscale per ottenere o continuare a percepire la pensione. Fra loro c’era un arzillo vecchietto che leggeva il giornale con degli occhiali neri da sole – nonostante fuori fosse già sera – poggiati svogliatamente sui capelli, visibilmente indifferente a tutto ciò che lo circondava. Per quanto lo osservasse, Mario non riusciva a capire l’anziano di cosa soffrisse e chiese al padre se per caso non fosse uno dei disabili momentanei per motivi post operatori.
«Sono anni che faccio questa maledetta visita e l’ho sempre incontrato. È stato definito non vedente.»
«Ma se legge il giornale! E non solo i titoli, ma sta leggendo i vari servizi e opuscoletti.»
«Che significa? Se i medici scrivono che è cieco: lui per tutti sarà cieco. Poca importa che ci veda oppure no! Sta a vedere cosa fa quando lo chiamano.»
L’arzillo vecchietto continuò a leggere il giornale senza curarsi degli altri e appena fu chiamato disse: “Eccomi!”, abbassò gli occhiali scuri sugli occhi e prese un bastone da dietro la sedia facendolo scivolare davanti a sé alla ricerca di ostacoli nel lento movimento usato dai non vedenti.
«Pazzesco!» proruppe Mario. «E gli stessi medici che vengono presi in giro tanto platealmente da lui convocano te ogni anno per vedere se ti sia cresciuta la gamba? Credo di aver trovato il mio primo servizio giornalistico, papà! Ma ho bisogno di te.»
«Cosa vuoi che faccia?»
«Hai degli amici tra questi pazienti; parla con loro e cerca di venire a conoscenza di più particolari possibili delle loro storie. Mi interessano sia quelli che sono veramente invalidi che quelli - come quel vecchietto - che fingono spudoratamente. Per le foto, se non ti dispiacerà, un paio di scatti al tuo moncherino basteranno per indicare lo spreco di tempo per i medici e per dei poveri infermi costretti ad umiliarsi ogni anno sotto gli occhi di tanti – spesso – incapaci dottori che dichiarano te non invalido permanente e allo stesso tempo vengono gabbati da dei commedianti, o lestofanti...»
L’esordio di Mario nel mondo del giornalismo fu dirompente, anche se lo seppero solo lui e il direttore. Infatti l’uomo appena letto il servizio convocò il ragazzo e si fece spiegare tutti i particolari di cui era venuto a conoscenza sia dal padre che dai tanti che aveva intervistato. Mario aveva inserito, oltre a un buon numero di foto, anche alcune testimonianze di imbroglioni che – restando anonimi – gli avevano spiegato come riuscissero a truffare i preposti al controllo fiscale, oppure con quali sistemi corrompessero gli addetti alle visite per farli chiudere non uno ma tutti e due gli occhi. Il direttore aveva letto e sentito attentamente e parlò chiaro al giovane, spiegandogli come intendesse procedere con lui, lusingandolo ma allo stesso tempo facendolo intristire dicendogli che il suo vero nome non doveva comparire per ragioni di strategie pubblicitarie. Trovò per lui uno pseudonimo adatto al tipo di articolo da presentare e sconvolse tutto il suo testo con decine di tagli, aggiunte e correzioni. Di ciò che avesse scritto Mario, impiegandoci una settimana intera - notti comprese – si salvò solo il concetto di base e qualche frase di secondaria importanza. Ma l’umiltà e la modestia del giovane gli fecero considerare solo la gioia di vedere la sua idea pubblicata in terza pagina, e la consapevolezza di avere un mentore valido come il famoso direttore di quel giornale. Quella era tutta gavetta, e lui sarebbe stato uno sciocco se si fosse offeso. Si ritagliò invece l’articolo e lo rilesse migliaia di volte prima di darlo al padre per farlo leggere pure a lui, facendogli vedere i trecento euro che gli aveva dato il direttore per il lavoro consegnato. E poco importava che non ci fosse stato il suo nome a piede dell’articolo, e quel “Corvo nero”, non essendo registrato, poteva essere chiunque e chiunque ne poteva dichiarare la paternità. Ma per iniziare tutto andava bene, anche l’anonimato.
III
Il clamore a seguito dell’articolo di Corvo nero fu eclatante. Tanti procuratori si svegliarono da un lungo letargo e avviarono inchieste su inchieste che seguirono a ruota quella voluta dalla previdenza sociale, dichiaratasi parte lesa in tutte le inchieste a carico dei pazienti sospettati di mentire e dei medici legali corrotti, concussi o compiacenti. Venne a galla che, delle centinaia di persone ritenute invalide che superavano annualmente le visite fiscali, solo poche di esse avevano i requisiti per ricevere il sostegno previdenziale, e per contraltare, tanti altri pazienti aspettavano per anni la convocazione a tale visita affinché fosse riconosciuta loro l’invalidità.
Dalle indagini si passò agli arresti, ed il giornale pubblicò decine di articoli su vicende collegate o collegabili alle inchieste in corso. Con rammarico Mario dovette constatare che tanti redattori del giornale scrivevano a turno su quella vicenda da lui avviata, firmando con i propri nomi i vari pezzi, e di lui nessuno parlava. Quando chiese spiegazioni al direttore, questi finse di non aver sentito e lo spronò a trovare altri argomenti che suscitassero lo stesso interesse e creassero un eguale clamore. Presto sarebbe stato il suo turno di diventare famoso, per il momento chi avrebbe dovuto comparire erano i redattori più famosi e letti che potevano approfittare del successo dell’articolo del Corvo nero per smuovere l’interesse dell’opinione pubblica anche su altri argomenti, ugualmente spinosi, ma che non avevano la risonanza dell’articolo principale.
Come per l’attore che interpreta un personaggio, Mario divenne per tutti - e un po’ anche per lui - il nero uccello capace di scoprire tutto il marciume della società. Anche quello che era fin troppo palese e tutto (lo) conoscevano da sempre. Ma ciò che era mancato fino ad allora era chi avesse il coraggio di renderlo pubblico. Gli articoli del Corvo si succedevano l’uno all’altro, smuovendo le coscienze di tutta la gente su tanti argomenti di interesse pubblico. Ci furono articoli che toccavano le Istituzioni o i poteri forti, diventando spine nel fianco per il direttore e l’editore del quotidiano che ospitava i servizi del redattore anonimo. Ma sia all’uno che all’altro era evidente che la tiratura del giornale fosse aumentata da quando il Corvo era apparso con uno spazio settimanale fisso in terza pagina, e per evitare di rispondere alle domande su di lui o essere costretti a svelarne l’identità, avevano indetto una conferenza stampa in cui avevano dichiarato che gli articoli arrivavano in redazione anonimamente e loro non sapevano chi fosse l’autore.
Intanto Mario, o meglio: il Corvo nero, dopo due anni aveva ancora tanto da dire, ed era dispiaciuto quando il direttore gli scartava dei servizi che lui riteneva validi, prendendo in considerazione solo alcuni. L’esperienza che aveva maturato in quei mesi vissuti fra persone di tutti i tipi era servita a farlo crescere presto e fargli scoprire l’effettivo valore delle persone che avesse di fronte, direttore compreso; che come unico ringraziamento per il grande successo ottenuto dal suo giornale per merito di Mario, aveva consentito che il giovane potesse pubblicare come cronista indipendente qualche trafiletto a suo nome nell’ultima pagina della cronaca. Spesso era capitato che l’uomo leggesse con attenzione alcuni articoli e si riservasse di dare una risposta al giovane reporter sull’eventuale pubblicazione. E tanti, nonostante il parere contrario dell’autore, venivano ritenuti non interessanti o non in linea con la veste editoriale che si era data il giornale. Invece di cestinarli Mario li conservava facendone ben presto un vero archivio. Di tanto in tanto prendeva quegli scatoloni zeppi di fogli e li sfogliava cercando di tenere a mente nomi, luoghi e situazioni. Fu così che intuì chi fossero tutti gli amici occulti o legati ai soci della società di capitali che faceva capo al giornale.
Alla stessa società facevano capo varie testate giornalistiche e televisive e aveva interessi in molti settori dell’economia nazionale. Se il direttore non aveva voluto pubblicare quei servizi – o non aveva potuto pubblicarli – era senz’altro perché i personaggi coinvolti erano legati all’editore o ai membri del consiglio di amministrazione della società proprietaria del giornale. Il sospetto di Mario era che tutte le persone che fossero state attaccate dal giornale in quegli anni, sfruttando le scoperte del Corvo, fossero persone concorrenti dei magnati proprietari della testata giornalista oppure persone non coinvolte direttamente con i loro affari. Il giovane si sentì usato e raggirato. La sua indole bonaria lo consigliava di lasciar perdere e approfittare dei vantaggi che presto avrebbe ottenuto continuando a lavorare per quel giornale. Ma la sua estrazione proletaria gridava vendetta e incominciò a non trovare pace con quel martello pneumatico in testa a ricordargli quanto anche lui fosse diventato parte del marciume che cercava di combattere da due anni.
Prese tutti i servizi che aveva scartato il direttore in quegli anni e li lesse attentamente. Ne scelse un paio di quelli che gli sembravano particolarmente interessanti e si recò da un giornale concorrente, di tiratura quasi uguale a quello per cui pubblicava. Mario sapeva troppi particolari sulle inchieste aperte grazie agli scoop del Corvo, quindi la sua identità fu creduta dal direttore del quotidiano e fu trattato – per la prima volta - dal grande giornalista quale fosse. L’uomo lo invitò a sedere e aspettò paziente che il giovane cronista d’assalto si decidesse a parlare. Era importante dosare le parole per far sì che l’uomo non le travisasse o le utilizzasse a suo comodo. Più che mentire, decise di omettere alcuni importanti particolari sul motivo che lo aveva spinto a rivolgersi alla concorrenza e gli mostrò i servizi che credeva potessero interessarlo.
Aveva visto giusto! Il direttore si disse entusiasta di un paio di scoop sensazionali che avrebbero avuto la prima pagina appena si fossero accordati sul prezzo. Quando Mario gli chiese la cifra che percepiva dal solito giornale – con cui non aveva nessun contratto firmato nonostante ci lavorasse da tempo – l’uomo credette che il ragazzo lo volesse prendere in giro. Un articolo del genere, corredato da foto e da interviste ai diretti interessati, valeva migliaia di euro; altro che le poche centinaia di euro che gli aveva chiesto il giovane. Decise di dargli il doppio con la premessa che lui avrebbe inviato altri articoli del genere, non immaginando neppure che il cronista ne avesse già una decina, rifiutati dal precedente direttore. Mario non era però interessato principalmente ai soldi, e se era andato da un giornale concorrente non era per mercanteggiare sui suoi servizi giornalistici e ricavare di più, ma per placare la propria coscienza e cercare di diventare finalmente un giornalista famoso dopo aver pubblicato scoop su scoop anonimamente. La condizione che impose all’uomo fu che quell’articolo portasse in calce il nome dell’ideatore: Mario Manzi.
Il direttore stette a pensarci un poco. Il Corvo nero era divenuto famoso nell’ambiente giornalistico cittadino, e tutti – compreso lui – avevano pensato che fosse stato lo pseudonimo di un esperto giornalista come lo era il direttore del giornale su cui pubblicava il Corvo oppure il capo redattore. Venendo a sapere che invece fosse quel ragazzo sconosciuto, aveva sperato di poter utilizzare per il suo giornale la fama acquisita dall’anonimo cronista di tanti articoli spinosi, sottraendolo più facilmente alla concorrenza. Ma la condizione di Mario di pubblicare con il suo nome non avrebbe attratto i lettori come se l’autore fosse stato il famoso uccello vendicatore. Ci vollero pochi minuti per ideare un piano. Se Mario avesse acconsentito, avrebbe pubblicato quell’articolo e i prossimi con il solito pseudonimo e, dopo che avesse ottenuto l’esclusiva dei suoi servizi con tanto di contratto, sia come Mario Manzi che con il suo più famoso nomignolo, e quando tutti i lettori si fossero appassionati ai reportage del Corvo - letti stavolta sul loro quotidiano e non su quello più famoso della concorrenza - avrebbe svelato a tutti la vera identità del giornalista d’assalto che si nascondeva dietro il nome di Corvo nero, facendo diventare famoso Mario e dando al suo giornale la possibilità di farsi tantissima pubblicità con quello scoop nello scoop.
Come con il primo direttore, di tutti quei particolari Mario ne avrebbe fatto sinceramente a meno. Lui voleva scrivere, e soprattutto non voleva impedimenti su cosa scrivere o si sentisse di scrivere. I raggiri e la diplomazia non facevano per lui. Per questo si alzò dalla sedia e porse la mano all’uomo dicendosi d’accordo. Lo salutò promettendogli un articolo simile a quello che lo aveva sbalordito ogni settimana, consentendo all’editore di elaborare un programma editoriale in cui ci fosse uno spazio fisso per ospitare i suoi reportage.
Il primo articolo fu devastante quanto e più di quello di due anni prima. L’esperienza e l’apprendistato avevano dato a Mario la dote dell’incisività e quella della sintesi, e con poche frasi riusciva a coinvolgere la gran parte dei lettori, sensibilizzandoli su argomenti di interesse pubblico. Nell’articolo in questione si parlava del traffico dei clandestini e di tutti quegli appaltatori legati sia alla politica che alla criminalità organizzata che utilizzavano lavoratori in nero sottopagati, costringendoli a vivere in condizioni disumane identiche a quelle utilizzate nei lager dai nazisti durante l’ultimo conflitto mondiale. Le foto che ritraevano quei poveretti erano fin troppo eloquenti, e da sole potevano bastare per convincere le varie Procure interessate per questioni di territorio ad avviare decine di inchieste su altrettanti imprenditori (alcuni vicini ai proprietari del giornale che aveva rifiutato l’articolo di Mario). Poi c’erano le interviste a tanti parenti di persone che si erano recate a lavoro la mattina e invece di fare ritorno alle proprie abitazioni erano scomparse nel nulla, lasciando all’oscuro le proprie famiglie. Il sospetto che fossero state vittime di incidenti sul lavoro e fatte sparire per non denunciare l’accaduto era forte, e dato il numero esagerato degli scomparsi, un’inchiesta seria e scrupolosa avrebbe messo sotto sequestro e perquisiti i tanti cantieri dove erano stati fatti dei riporti o delle grosse strutture in cemento per scoprire se fosse stato occultato in esse corpi umani o parti anatomiche.
Il clamore del servizio giornalistico non era ancora scemato che Mario aveva già in mente quale articolo mandare al nuovo direttore. L’uomo era stato entusiasta del successo ottenuto e aveva parlato con l’editore. Questi aveva detto che altri due articoli eclatanti come il primo e poi avrebbero potuto organizzare una conferenza stampa in cui avrebbero svelato l’identità del Corvo nero, facendo di Mario un grande giornalista richiesto da tutti i giornali e persino dalla televisione di Stato.
Era felice! Finalmente poteva essere un giornalista. L’esperienza che aveva maturato in quegli anni e le decine di conoscenze fatte gli avrebbero consentito di muoversi liberamente in qualsiasi settore. Sarebbe stato divertente vedere le espressioni di tutti quelli che lo conoscevano come Mario, quando avessero saputo che lui fosse il famoso Corvo nero. Per adesso conoscevano la sua identità solo i due direttori dei giornali con cui aveva collaborato, e spesso, nei bar e ritrovi pubblici, aveva sentito raccontare storie fantasiose sull’identità del famoso giornalista.
Sorrise a quel pensiero mentre parcheggiava sotto casa l’utilitaria che aveva comprato di seconda mano. Scese e inserì la chiave nella serratura del veicolo per chiuderla quando si sentì chiamare.
«Mario!»
Fu l’ultima parola che udì. Poi due forti detonazioni lo stordirono e lui si trovò divelto per terra. Non aveva avuto neppure il tempo di sentire il dolore causato dai due proiettili penetrati nello stomaco e nel torace che la vista si annebbiò e di lui non ci fu null’altro che un amorfo disegno fatto con del gesso bianco sull’asfalto. Il Corvo nero era morto per sempre portando con sé il segreto della sua identità.



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